www.paolodorigo.it/ClasseOperaia.htm

Petrolchimico di Porto Marghera: la sentenza del 15.12.2004 della corte d’appello di Venezia   oggetto: centinaia di operai ammalati e uccisi dal cvm/pvc presso il petrolchimico e la montefibre di porto marghera

COSE CONTRO CUI LA CLASSE OPERAIA LOTTAVA SIN DAGLI ANNI ’60-INIZIO ’70 E CHE L’ESPERIENZA DELL’ASSEMBLEA AUTONOMA DEL PETROLCHIMICO, DI LAVOROZERO, CONTROLAVORO, AUTONOMIA, E COMITATO OPERAIO DEL PETROLCHIMICO, RIPRODUSSERO NELLA COSCIENZA E NELLE LOTTE PER LA MANUTENZIONE E LA QUINTA SQUADRA E CONTRO IL COLLABORAZIONISMO SINDACALE DELLA TRIPLICE DI ALLORA

 

Questa sentenza pronunciata il 15 dicembre 2004 riforma parzialmente quella nefasta di primo grado che aveva mandati assolti tutti gli imputati. Essa arriva ad oltre 10 anni dall’esposto-denuncia presentato alla Procura della Repubblica di Venezia da Medicina Democratica, tramite il caro compagno Gabriele Bortolozzo, responsabile della Sezione Veneziana dell’Associazione e operaio del Petrolchimico di Porto Marghera, deceduto nel 1995, mentre fermo ad un semaforo, veniva travolto da un autotreno.

 

La Confederazione Unitaria di Base (C.U.B.) e il Sindacato Chimici A.LL.C.A.-C.U.B., in questi dieci anni, si sono concretamente impegnati assieme a Medicina Democratica, all’interno ed all’esterno delle aule giudiziarie, per affermare verità e giustizia, contribuendo così a ridare dignità e visibilità alle vittime, gli operai (e loro famigliari) del Petrolchimico e della Montefibre di Porto Marghera.

 

Una sentenza che porta un barlume di giustizia.

Le vittime, ovvero le parti civili costituite, per affermare i propri diritti dovranno intentare cause civili in relazione ai reati prescritti e non prescritti.

 

Circa le inaccettabili condizioni di lavoro (letteralmente mortali!) esistenti nel Polo chimico di Porto Marghera (Petrolchimico e Montefibre), al di là degli evidenti limiti insiti nella sentenza per le numerose prescrizioni dei reati e per le attenuanti generiche concesse, va sottolineato che essa fa emergere una significativa verità.

 

Infatti, nonostante l'intervenuta prescrizione, viene sancita – anche a livello giudiziario - l'esistenza del nesso di causalità fra l'esposizione lavorativa alle sostanze tossiche e cancerogene, in primis CVM/PVC, e l'insorgenza nei lavoratori della malattia di Raynaud, delle epatopatie, degli angiosarcomi del fegato, di altre neoplasie e di infortuni/malattie professionali; inoltre, la stessa sentenza evidenzia l'omessa collocazione degli impianti di aspirazione nonchè l'avvenuto inquinamento delle acque della Laguna di Venezia per lo sversamento nella stessa degli scarichi idrici inquinati derivanti dagli impianti/processi del Petrolchimico, il tutto in violazione del DPR 962/1973 (Legge speciale per Venezia).

 

Concesse le attenuanti generiche, gli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti, D'Arminio Monforte, sono stati condannati alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione ciascuno, nonchè al pagamento in solido delle spese processuali dei due gradi di giudizio.

 Scorrendo, uno per uno, i nomi delle centinaia di operai, uomini in carne ed ossa, uccisi dal CVM al Petrolchimico ed alla Montefibre di Porto Marghera, non si può certo dire che sia stata fatta giustizia.

 

Non va comunque taciuto che questa sentenza cancella l'ignominia della sentenza di primo grado che aveva mandati assolti tutti gli imputati – i boiardi della chimica italiana – con l'aberrante affermazione: "il fatto non sussiste".

 

Non va neppure taciuto che quanto si è riusciti a far emergere in tema di nesso di causalità fra esposizioni lavorative negli impianti della filiera produttiva del Cloro/1,2 - DCE/CVM/PVC del Polo chimico di Porto Marghera e le patologie neoplastiche e non neoplastiche causate ai lavoratori addetti (ferme le peculiarità delle diverse realtà produttive), potrebbe avere riflessi positivi nei processi penali aperti relativi alle malattie e morti operaie nonchè all'inquinamento ambientale, causati da altri impianti Petrolchimici come, per esempio, quelli di Brindisi, Manfredonia, Ravenna, Ferrara, Mantova, Priolo, Porto Torres ed altri.

 

Al di là dei suoi limiti, questa sentenza d’appello riveste una notevole importanza sotto il triplice profilo socio-culturale, politico-sindacale e giuridico. Essa costituisce per le lavoratrici e i lavoratori (e non solo per essi!) un contributo tangibile per il rilancio della mobilitazione e della lotta per l’abolizione delle produzioni di morte (nel nostro caso il CVM/PVC e più in generale le sostanze cancerogene) e per affermare i diritti inalienabili alla salute, alla sicurezza, all’ambiente salubre, nonché per il rigoroso rispetto dei diritti umani, in una parola per affermare la democrazia nella sua più estesa accezione.

 

La Confederazione Unitaria di Base – C.U.B. e il Sindacato chimici A.LL.C.A. – C.U.B. attraverso la partecipazione a questa storica esperienza hanno maturato e accumulato un notevole patrimonio di conoscenze che verrà messo a frutto nelle future iniziative sindacali per la tutela e la promozione della salute e dell’ambiente salubre nei luoghi di lavoro e in ogni dove della società.

 

Da ultimo, ma non per importanza, ringraziamo pubblicamente il Pubblico Ministero, Dr. Felice Casson, per l'impegno civile profuso e per l'invalutabile lavoro giudiziario condotto ininterrottamente per oltre dieci anni.

 

Analogo ringraziamento va all'Avv. Luigi Scatturin – (e agli altri nostri Difensori e Consulenti Tecnici) – che in modo disinteressato ha coordinato il Collegio di Difesa di Medicina Democratica, dei Sindacati A.L.L.C.A. e C.U.B. e delle altre Parti Civili associate, partecipando fattivamente a tutte le udienze del processo di primo e secondo grado con qualificati contributi professionali.

 

Alla pubblicazione delle motivazioni della sentenza, la C.U.B. e l’A.LL.C.A.– C.U.B. si impegnano a promuovere un convegno a Milano per fare il consuntivo di questa storica esperienza umana, civile, culturale e giuridica, e per trarre dalla stessa utili indicazioni per le future lotte sindacali.

 

Milano, 20 Dicembre 2004

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La sentenza del 15.12.2004 della corte d’appello di Venezia

                  FATTO E DIRITTO

 

Con sentenza in data 2/11/2001 del Tribunale di Venezia, gli imputati venivano assolti, nei termini in epigrafe riportati, in ordine ai reati ascritti in rubrica.

 

Circa il primo capo d’imputazione, ricordava il predetto giudice in premessa della sentenza che, così come già esposto dal P.M. nella sua esposizione introduttiva illustrata all'udienza del 29 maggio 1998, le indagini avevano preso avvio a seguito di un esposto presentato da Gabriele Bortolozzo componente del comitato di redazione della rivista Medicina Democratica, che segnalava la produzione presso il petrolchimico di Porto Marghera di una sostanza chimica denominata CVM riconosciuta cancerogena dalla organizzazione mondiale della sanità (OMS) e dalla Comunità Economica Europea che aveva provocato la morte per tumore di 120 lavoratori, addetti alla lavorazione nella filiera del cloro, che indicava nominativamente. Un altro esposto era stato trasmesso all'autorità giudiziaria dallo stesso Bortolozzo  in data 6/5/1985 in cui già allora denunciava il pericolo  derivante dalla esposizione al  cloruro di polivinile, ma che non aveva dato seguito a nessuna indagine e di cui era stata disposta la archiviazione.

 

Dai primi elementi raccolti e da una consulenza orientativa affidata al professor Carnevale risultava che  37  dei 120 lavoratori segnalati dal Bortolozzo erano affetti da patologie correlate alla esposizione al CVM-PVC. Si sviluppava allora un’ampia attività di indagine con acquisizione della documentazione scientifica in materia ed espletamento di specifici accertamenti, pervenendo il P.M. alla conclusione che sulla base degli esaminati studi sperimentali ed accertamenti medici effettuati  nelle industrie di lavorazione  di tali sostanze, sarebbe risultato che i primi sospetti di tossicità risalivano agli anni '40 e '50 e che  la cancerogenità era stata segnalata  per la prima volta dal dottore Gian Luigi Viola, medico di fabbrica della industria Solvay di Rosignano, nel 1969.e confermata dagli studi  sperimentali che la Montedison  affidò al professor Cesare Maltoni, noto  oncologo, i cui primi risultati furono comunicati ai committenti nel 1972 e alla comunità scientifica nel l974, quando oramai era stata data notizia della morte di lavoratori addetti alla produzione di CVM  dipendenti della società statunitense Goodrich per angiosarcoma epatico, identico tumore individuato dal professor Maltoni nei suoi esperimenti sui  ratti. Sia in America che in Italia si rivalutarono alloro le patologie tumorali di taluni lavoratori nel frattempo deceduti che vennero riclassificati come angiosarcomi epatici, rara forma tumorale che venne associata alla esposizione al c v m.

 

Tale esposizione venne altresì correlata dalla agenzia per il cancro (IARC) nelle monografie pubblicate nel 1974, 1979, 1987, ai tumori al fegato, ai polmoni, all'encefalo, e al sistema emolinfopoietico, individuando evidenze anche per  i tumori della laringe in particolare per i lavoratori addetti all'insacco del PVC che erano, insieme agli autoclavisti, i più esposti al cvm. Pur a fronte di tali evidenze, secondo il P.M., e nonostante le pressioni sindacali, protrattesi fino  al 1977, che ebbero come risultato l'indagine dell‘Istituto di Medicina del Lavoro di Padova e che invocavano una drastica riduzione della concentrazione del c v m negli ambienti di lavoro, la Montedison non operò quegli interventi sugli impianti necessari a raggiungere tale obiettivo, anche approfittando della crisi economica che indusse il sindacato alla moderazione sui temi della nocività  e della salute a fronte del ricatto occupazionale .

 

 Né le successive vicende societarie, che porteranno nel 1987 Enichem a subentrare a Montedison nella gestione degli impianti di produzione del c v m, determinarono sostanziali mutamenti . Si sosteneva in particolare che i risultati degli accertamenti disposti sui sistemi di controllo per monitorare l'ambiente di lavoro, attuati dall’azienda mediante la installazione dei gascromatografi monoterminali, avevano evidenziato la loro inadeguatezza e inaffidabilità, poiché era risultato possibile alterare i dati con assoluta facilità, sicché l'abbattimento dei valori di concentrazione che appariva dai tabulati di tali apparecchiature era da considerarsi fittizio, non essendo neppure giustificato dagli interventi effettuati sugli impianti ritenuti del tutto insufficienti e inadeguati.

E così, nel primo capo di imputazione vengono contestati i reati di lesioni e di omicidio colposo plurimi anche come conseguenza della omissione dolosa di cautele e di dispositivi diretti a prevenire il verificarsi  di eventi lesivi o di danno dei singoli lavoratori  esposti alla produzione del CVM - PVC (art. 437 co2 c p) nonché il reato di disastro innominato (art. 434 co2 e 449 c p) per la gravità, l'estensione e la diffusività del pericolo per la pubblica incolumità e, in particolare, per la vita e l'integrità fisica della collettività operaia del petrolchimico. Veniva altresì contestato il delitto di strage colposa che secondo l’accusa doveva ritenersi punito dall'articolo 449 in riferimento all'articolo 422 codice penale. Si attribuiva in particolare rilevanza unitaria a condotte protrattesi per circa trent'anni (dal 1969 al 2000), mediante la contestazione della cooperazione colposa tra gli imputati che avevano ricoperto posizioni di garanzia e altresì mediante la contestazione della continuazione.

 

L’ ipotesi accusatoria sceglieva quindi un modello unitario di qualificazione della fattispecie concorsuale nella forma colposa ex art.113 cp, ponendosi quindi l’obbiettivo di dimostrare non solo che tra gli imputati vi era piena e reciproca consapevolezza di condotte inosservanti i precetti volti a prevenire gli eventi tipici, ma altresì che gli effetti penalmente rilevanti delle proprie condotte si ricollegavano a quelli causati dalle condotte di chi precedentemente aveva rivestito un ruolo di garanzia, nel comune perseguimento di un medesimo disegno criminoso che portava alla con contestazione della continuazione (interna ed esterna) tra tutti i reati, assumendosi che “il disastro è unico e riguarda sia il primo che il secondo capo di accusa in quanto l’attività di industria ha esplicato i suoi effetti dannosi sia all’interno che all’esterno della fabbrica”, e con addebito agli imputati della previsione dell’evento ex art. 61 n°3 cp.

 

A fronte di tale generale quadro di accusa, le difese degli imputati, sempre come ricordato dal Tribunale, ponevano in rilievo che successivamente alla pubblicazione delle monografie di IARC del 1978 e del 1987 era stata pubblicata nel 1991 da Simonato e altri , sempre nell’ambito di detta Agenzia, uno studio multicentrico europeo i cui risultati epidemiologici differivano dalle precedenti indicazioni cui aveva fatto riferimento il PM e concludevano affermando che l'ipotesi relativa agli effetti cancerogeni sul polmone, sul cervello e sul sistema emolinfopoietico non risultava confermata. Precisavano ulteriormente le difese che sia l'organizzazione mondiale della sanità che la commissione europea avevano concluso che l'unico organo bersaglio del c v m è il fegato e l'unico tumore associabile all'esposizione a tale sostanza è l' angiosarcoma epatico.

 

Anche per i tumori al polmone associati ad esposizione al PVC, cui in particolare erano interessati gli insaccatori, i risultati degli studi e cui si era riferito il pubblico ministero non sarebbero stati confermati da studi successivi. Si contestava comunque che gli studi epidemiologici cui aveva fatto riferimento prevalentemente il pubblico ministero fossero sufficienti all'accertamento del nesso di causalità che necessitava di una legge di copertura scientifica universale o di elevata significatività statistica.

 

Si sosteneva infine che, allorquando ebbe a manifestarsi la cancerogenità e tossicità del CVM,  tra la fine del 1973 e gli inizi del 1974, gli impianti ebbero a subire urgenti e rilevanti  modifiche. Si concludeva affermando che proprio i risultati di tali interventi determinarono sin dal 1974 una drastica riduzione delle concentrazioni: dai 500 ppm degli anni 50- 60 sino raggiungere nel 1975 concentrazioni al di sotto del valore soglia : dapprima fissato in 50 ppm e successivamente stabilito in 3 ppm  con DPR n° 962 del 1982 .

 

Concentrazioni che risultavano documentate dai bollettini di analisi e dai tabulati dei gascromatografi installati in quell'anno (1975) la cui affidabilità era confermata anche dai  dati rilevati nei mesi precedenti mediante i misuratori personali che indicavano un trend in progressiva diminuzione. La configurazione della imputazione ha poi indotto le difese a individuarne le caratteristiche in una sorta di “massificazione delle condotte”, espresse in termini impersonali e cronologicamente indifferenziati, che “si compattano attraverso meccanismi di accumulo, concentrazione e sovrapposizione in guisa tale da far emergere non singoli, specifici comportamenti ascrivibili a questo o a quel soggetto, ma a una sorta di politica di impresa riferibile all’ente societario in quanto tale”.

 

Questi, puntualizzava il Tribunale, i temi dibattuti nel corso della lunga istruttoria dibattimentale, durante la quale, relativamente al 1° capo di imputazione, sono stati sentiti numerosi consulenti introdotti dalle parti processuali, esperti non solo in epidemiologia e in medicina legale, ma altresì in biologia, in genetica molecolare, in tossicologia, in chimica industriale, in ingegneria impiantistica; inoltre sono stati escussi numerosi testi in particolare sulle condizioni ambientali dei luoghi di lavoro, sulle modificazioni  impiantistiche  intervenute e sui risultati ottenuti.

 

Il Tribunale, nell’affrontare le problematiche poste dal primo capo di imputazione, ha ritenuto di trattare separatamente, pur a fronte di condotte casualmente orientate, il problema del nesso di condizionamento tra le condotte e gli eventi contestati e gli addebiti di colpa rimproverati, occupandosi preliminarmente dell'accertamento del nesso causale tra esposizione a CVM-PVC e l'insorgenza delle malattie e dei tumori agli organi o apparati che sono stati individuati come  " il bersaglio " di tali sostanze.

 

Si è soffermato quindi sulle caratteristiche chimiche e tossiche e cancerogene del CVM-PVC, ritenendo che, sulla scorta dell’evidenza probatoria e valutati gli studi e conoscenze scientifiche che negli anni si erano sviluppate, all'inizio della produzione industriale del PVC, mediante  la polimerizzazione del monomero, la principale preoccupazione  che si nutriva era legata alla idoneità della sostanza gassosa di causare miscele esplosive con l'aria a concentrazioni di circa 30.000 ppm; per contro era  considerato scarsamente tossico tanto che fu impiegato  come gas anestetico ed utilizzato come propellente per spray fino ai primi anni '70, e che in tale contesto di conoscenze furono condotti i primi studi sulla tossicità del cvm che ebbero attenzione agli effetti conseguenti ad esposizioni a dosi molto elevate. Analiticamente quindi si soffermava su quelle che erano le conoscenze scientifiche degli anni ‘60 – ’70, richiamando già i primi studi negli anni ’30 negli Stati Uniti e poi gli studi in Europa  -Mastromatteo e altri 1960, Torkelson 1961, Popow 1965, Suciu e altri 1967 - e soffermandosi sugli gli studi di VIOLA e MALTONI.

 

Pier Luigi Viola era un medico di fabbrica della Solvay di Rosignano, che presentò nel 1969 a Tokyo, nell'ambito di un congresso di medici del lavoro, i dati relativi ad una sperimentazione sugli animali in cui aveva individuato lesioni polmonari, emorragia addominale, lesioni al cervello, fegato ingrossato, lesioni osteolitiche e alterazioni degenerative del tessuto connettivo; lesioni di uguale  genere vennero osservate in ratti esposti a 30.000 ppm per 12 mesi in un successivo studio realizzato con il prof. Caputo dell'Istituto Regina Elena di Roma. Tali studi di Viola sugli animali erano stati provocati dalla osservazione sui lavoratori addetti alla pulizia delle autoclavi di casi di osteolisi e di alterazioni vascolari alle estremità, tipiche del fenomeno di Raynaud, dato emergente dal rapporto  Suciu e altri pubblicato nel 1967 dopo che già a metà degli anni sessanta erano state accertate e pubblicizzate insorgenze nelle fabbriche americane di Sindromi di Raynaud e acrosteolisi causate dal contatto con la sostanza.

 

A parte tali patologie, riteneva però il Trtibunale che detti studi ancora non acclarassero scientificamente la cancerogenità per l’uomo del cvm-PVC, cui si pervenne solo a seguito degli studi del prof. Maltoni incaricato proprio da Montedison dopo l’allarme lanciato da Viola, ed a seguito dell’accertamento, nel gennaio 1974, presso la Goodrich Company di tre casi di angiosarcomi in operai addetti alla produzione del cvm, e, nei mesi successivi, di altri casi presso altre industrie americane.

 

La valutazione degli studi e diffusione delle conoscenze scientifiche in quegli anni (1970-1974), e delle testimonianze sul punto, porta il Tribunale a ritenere:

1) che determinanti per la conoscenza della cancerogenità furono i risultati sperimentali di Maltoni (e non quelli di Viola reputati inadeguati sia per il numero ridotto degli animali sia per le elevate esposizioni sia per i risultati che avevano individuato i tumori nella pelle e nei polmoni e non già angiosarcomi);

2) che le alte esposizioni degli anni '50 - '60 avevano provocato, oltreché effetti tossici ( svenimenti e nausee) anche casi di acrosteolisi tra gli addetti alla pulizia delle autoclavi e il dottor Viola era stato incaricato di approfondire sperimentalmente le cause di tale malattia senza mai essere ostacolato in queste ricerche neppure quando pervenne alla scoperta delle lesioni tumorali che, anzi, furono il dato preoccupante che sollecitò l'approfondimento affidato a Maltoni;

3) che i dati degli esperimenti di Maltoni circolarono tra il gruppo europeo e il gruppo americano che fu  altresì autorizzato a visitare il laboratorio di Maltoni e a controllare i protocolli sperimentali;

4) che i risultati, ancorché parziali, furono comunicati all'esterno da Maltoni non solo alla comunità scientifica al convegno di Bologna dell' aprile del 1973, ma altresì a tutte le istituzioni pubbliche, e che le clausole di riservatezza, poste per finalità di controllo tra il gruppo europeo e il gruppo americano, non resistettero all'evidenza  e si ridussero alla fine in una moratoria di 15 giorni richiesta dagli europei per una contemporanea comunicazione dei risultati alle istituzioni governative e ciò ancora prima che la Goodrich evidenziasse i primi casi di angiosarcoma accertati su propri dipendenti deceduti;

5) che già si poneva al centro dell'attenzione la individuazione di soglie di non effetto per l'uomo cui le imprese dovevano adeguarsi (Maltoni in udienza ha precisato questo aspetto, affermando che in un processo stocastico quale è la cancerogenesi teoricamente una soglia biologicamente accettabile non esiste anche se può essere ricercata una soglia socialmente accettabile).

 

Tali elementi, secondo il Tribunale, smentivano altresì la tesi del P.M. del patto di segretezza tra le industrie del settore in ordine alla diffusione della notizia della cancerogenità del cvm, patto che non avrebbe in realtà avuto la finalità di occultare i dati della ricerca, ma era piuttosto finalizzato ad un reciproco controllo tra le imprese interessate in ordine alla pubblicizzazione dei dati per evitare il rischio di essere posti fuori mercato o comunque di ritrovarsi in gravi difficoltà operative a seguito di iniziative unilaterali e non concordate.

E comunque la clausola di riservatezza  sarebbe rimasta di fatto inosservata come risulterebbe inequivocabilmente dagli avvenimenti, oltre che dalle documentate e riscontrate dichiarazioni di Maltoni, posto che lo stesso diffuse pubblicamente i risultati delle sue ricerche nel convegno di Bologna tenutosi nell'aprile del 1973 di cui furono partecipi la comunità scientifica e le pubbliche istituzioni.

 

Osserva dunque il Tribunale come dal 1974 ha inizio un’ampia revisione delle diagnosi  per decessi di lavoratori dell’industria di polimerizzazione con tumore al fegato e vengono accertati casi di angiosarcoma che per la sua rarità era anche di difficile identificazione. A tal punto resterebbe acclarato che: il cvm è oncogeno per l’uomo, onde gli interventi delle Agenzie (EPA, WHO, ACGH, IARC che classificano appunto il CVM come sostanza cancerogena per l'uomo e la inseriscono in categoria 1) e la fissazione di limiti di esposizione lavorativa richiamati in sentenza.

 

In particolare, ricorda il Tribunale come in Italia, dove i contratti collettivi di lavoro erano soliti recepire i valori indicati dalla A.C.G.I.H. (America Conference Governemental Industrial Hygienists) - che sino a tutto il 1974 mantiene un valore di 200 ppm come media giornaliera - nel contratto collettivo di data 12/12/1969 si raccomanda un MAC di 500 ppm e in quello successivo del 31 ottobre 1972 viene indicato come proposta da adottarsi il valore di 200 ppm come valore limite di soglia riferito alla media delle concentrazioni per una giornata lavorativa di 7 o 8 ore per una settimana di 40 ore e tale valore viene adottato anche nel contratto collettivo di data 17 aprile 1976 anche se la definizione di un valore adeguato alla accertata cancerogenità per l'uomo è in corso di individuazione .

 

Solo con il contratto collettivo del 23 luglio 1979  il limite di soglia TLV-TWA viene fissato in 5 ppm . Tale valore è definito come la “concentrazione media ponderale in una normale giornata lavorativa di 8 ore o in una settimana di 40 ore, a cui praticamente tutti i lavoratori possono essere ripetutamente esposti, giorno dopo giorno, senza effetti”. Si precisa inoltre che il Ministro del Lavoro nell'aprile del 1974- su proposta e sollecitazione del prof Maltoni- aveva emanato una raccomandazione di non superamento del valore di 50 ppm TVL come valore di riferimento tendenziale. E solo con la direttiva CEE n° 610/78  recepita con DPR n°962/82 i valori vengono ridotti a 3 ppm peraltro come media annuale.

 

Passa quindi in rassegna il Tribunale gli studi epidemiologici e sperimentali in materia e la loro valutazione scientifica in primo della IARC cui hanno fatto principalmente riferimento i consulenti del P.M., ma poi attestandosi sui successivi studi epidemiologici che mettevano in discussione le comclusioni di IARC 1987.Si ricorda come IARC avesse effettuato tre diverse valutazioni della cancerogenità del CVM , nel 1974, nel 1979 e nel 1987 e tale sostanza è stata oggetto anche di rapporti interni  nel 1975 e nel 1989 e le conclusioni di ques’ultimo anticipano i risultati dello studio epidemiologico multicentrico europeo del 1991 coordinato dal dott. Simionato al quale, nel corso dell'istruttoria dibattimentale, è sopravvenuto l'aggiornamento curato da Ward nel 2000 e di cui ha riferito in aula il dott . Boffetta che ne è coautore.

 

La monografia del 1974 prende in esame, ai fini della valutazione del rischio  cancerogeno nell'uomo, i risultati delle sperimentazioni di Maltoni  e di Viola cui si è già fatto riferimento. Riferisce che la prima associazione tra esposizione al c v m  e lo sviluppo del cancro  è stata avanzata da Creech e Jonnshon nel 1974 che avevano osservato tre casi di angiosarcoma del fegato in operai che lavoravano a contatto con questa sostanza (si tratta dei  lavoratori dellaGoodrich).

 Riferisce  inoltre che dall'esame dei registri medici e da una analisi del materiale patologico erano stati scoperti altri dieci  angiosarcomi in lavoratori addetti alla lavorazione del c v m e il tempo intercorso tra la prima esposizione e la diagnosi del tumore andava dai 12 ai 29 anni e la durata complessiva dell'attività aveva comportato una esposizione di 18 anni (Heath e altri 1974). Precisa inoltre che nello stesso stabilimento erano stati accertati 48 casi di malattie del fegato non maligni  in esposti mediamente da oltre vent'anni e che dalla biopsia era stata riscontrata una fibrosi portale e noduli della fibrosi subcapsulare.

Altri studi  avevano accertato, tra la metà e la fine degli anni ‘60 l'insorgere di  acrosteolisi generalmente localizzata nelle falangi distali delle mani negli addetti alla pulizia delle autoclavi. Nei lavoratori addetti a tali mansioni, i più esposti alle alte concentrazioni, in uno stabilimento per la produzione di PVC in Germania, sottoposti a test di funzionalità epatica e a esame istologico dei frammenti di biopsia epatica, è stata rilevata splenomegalia , epatomegalia  e fibrosi portale ovvero fibrosi della capsula del fegato . Sulla base di tali dati - che erano quelli conosciuti alla data del 26 giugno1974 - la valutazione dell'agenzia era la seguente: “considerata l'estrema rarità dell’angiosarcoma del fegato nella popolazione comune, il riscontro di 16 casi in lavoratori esposti al c v m prova che c'è una relazione causale".

 

In conclusione la prima valutazione sulla base dei pochi dati sperimentali e della scarsa casistica di osservazione sull'uomo indicava una relazione causale tra l'esposizione al c v m e l’angiosarcoma epatico e la presenza di  fibrosi portale e subcapsulare ; infine individuava  l‘insorgere di acrosteolisi nei lavoratori addetti alla pulizia delle autoclavi. 

 

La successiva monografia pubblicata nel febbraio del 1979, sulla base di ulteriori ricerche sperimentali e, in particolare, di studi epidemiologici, così concludeva per quanto riguarda i risultati sperimentali in topi, ratti e criceti: " il cloruro di vinile si rivelava cancerogeno in tutte e tre le specie e produceva tumori in vari siti compreso l’angiosarcoma del fegato...... È stata dimostrata la relazione dose –risposta”. Per quanto concerne l'uomo si affermava che " i vari studi tra loro indipendenti, ma i cui  risultati  si confermavano a vicenda, hanno dimostrato che l'esposizione al cloruro di vinile comporta un aumento del rischio cancerogeno negli umani riguardante il fegato, il cervello, i polmoni e il sistema emolinfopoietico". 

 

Si concludeva pertanto per la cancerogenità del c v m per l'uomo indicando quali organi preferiti il fegato, il cervello, i polmoni e il sistema emolinfopoietico. Per quanto riguarda l'effetto dose-risposta si affermava che "nonostante  dai gruppi di lavoratori esposti ad alte dosi di c v m si sia avuta la prova della cancerogenità del c v m per l'uomo, tuttavia non si ha la prova del fatto che esiste un livello di esposizione al di sotto del quale non si verifichi un incremento del rischio di cancro nell'uomo". Si affermava infine che gli studi esistenti sul p v c non erano sufficienti a stabilire la cancerogenità di tale composto.

 

Con la valutazione del 1987 si afferma che in un gran numero di studi gli epidemiologici hanno comprovato il rapporto causale esistente tra il cloruro di vinile e l'angiosarcoma del fegato . Numerosi studi inoltre confermano che l'esposizione al cloruro di vinile causa altre forme di cancro e cioè il carcinoma epatocellulare, tumori al cervello, tumori al polmone e tumori del sistema linfatico- ematopoietico. Si afferma inoltre che in uno studio (Waxvejler) l'esposizione alla polvere di PVC è stata associata  all'aumento della incidenza del tumore al polmone e gli autori hanno pensato  che il responsabile fosse il c v m intrappolato. 

Peraltro l'agenzia continua a classificare il PVC nel gruppo 3 per la inadeguata evidenza di cancerogenità sia per l'uomo che per gli animali da esperimento.

 

Osserva peraltro il Tribunale come tali conclusioni di IARC 1987, alle quali i consulenti medico-legali della accusa si sarebbero principalmente riferiti ai fini di ritenere le patologie discusse correlabili o meno con l'esposizione a  c v m o PVC, siano state poste in discussione  dagli studi epidemiologici successivi. In particolare dallo studio multicentrico europeo coordinato da IARC e condotto da Simonato e altri (1991) e dallo studio sulle coorti americane condotto da Wong (1991) i quali saranno successivamente aggiornati rispettivamente da Ward (2000) e da Mundt (1999).

 

Nell’analizzare tali studi il tribunale ricorda come nel primo si fosse concluso che non sussiste alcuna associazione tra esposizione a cvm e i tre organi bersaglio diversi dal fegato (polmone, cervello, sistema linfatico), mentre per il cancro del fegato l’analisi basata sulle variabili temporali ha rivelato eccessi statisticamente rilevanti nel periodo di assunzione 1945 - 1954 e 1955- 1964 mentre è stata osservata una diminuzione del rischio per quelli assunti negli ultimi anni ‘60 e nei primi anni '70 anche se viene precisato che il tempo di osservazione è troppo corto per poter valutare il rischio per i lavoratori assunti recentemente.

 

La mortalità da cancro del fegato, secondo il tipo di lavoro, distingue i lavoratori addetti all'autoclave fra i " sempre " e gli " altri " e dimostra che l'aumento del rischio è concentrato fra coloro che hanno lavorato all'autoclave in ogni momento  (" sempre"). Ma si evidenziava altresì che per i lavoratori con 15 o più anni dalla prima esposizione (15 anni di latenza) un aumento del rischio statisticamente significativo compare anche per quelli classificati come " altri ". Onde l’'analisi dei decessi da cancro del fegato basata sulla esposizione cumulativa rivela un rischio crescente con l'aumento dell'esposizione e con una consistente relazione esposizione – risposta, e per tutti i decessi da cancro al fegato la latenza varia da 16 a 33 anni con una media di 24 anni mentre la durata media dell'esposizione è di 18 anni (da 16 a 33 anni).

 

In proposito riteneva il Tribunale importante rilevare che l'anno di assunzione e' soprattutto ricompreso nell'ambito degli anni anni 50 (solo 6 negli anni 60 e 2 negli anni 40); e che veniva rilevata una tendenza verso una diminuzione del rischio per quelli assunti negli ultimi anni ’60 e nei primi anni ’70, sebbene si precisi che il tempo di assunzione era ancora troppo corto per poter valutare il rischio per i lavoratori assunti recentemente. Inoltre sono molto chiare le relazioni esposizione - risposta fra l'esposizione cumulativa al c v m e rischio di cancro del fegato e  angiosarcomi. Distinguendo, invece, l' angiosarcoma dalle altre neoplasie del fegato il rapporto di queste ultime era pressoché sovrapponibile all'atteso.

 

Questa osservazione assume, secondo il Tribunale, particolare rilievo nella controversa discussione in ordine alla associazione cvm-epatocarcinoma, e si ricorda che nelle considerazioni conclusive si afferma che i risultati dello studio confermano l'associazione fra cancro del fegato e l'esposizione al c v m: l'eccesso di mortalità-quasi il triplo con 24 osservati e 8.4 attesi (RSM 2,86)- è associato con la durata dell'impiego e con il livello delle esposizioni e i risultati sono rafforzati dalle analisi di regressione che indicano che il rischio di cancro del fegato dipende significativamente dall'esposizione cumulativa e dagli anni trascorsi dalla prima esposizione.

 

Si osserva poi come l'aggiornamento dello studio multicentrico europeo (di Ward - Boffetta e altri 2000).ha esteso per gli anni 90 l'accertamento dello stato in vita dei lavoratori di 17 delle 19 aziende incluse nello studio: l'aggiornamento della mortalità e dell'incidenza varia dall'anno 1993 all'anno 1997. ed è stata pressochè identica a quella attesa (RSM 0,99), leggermente inferiore a quella dello studio precedente.  Nessun angiosarcoma si è verificato tra gli operai assunti dopo il 1973 e non si era verificato alcun decesso per cancro del fegato prima che fossero trascorsi 15 anni dalla prima esposizione.

 

Inoltre, neppure nel predetto aggiornamento della corte europea si  è rilevata alcuna associazione tra esposizione al c v m e mortalità per cancro del polmone, sottolineandosi tuttavia che quando le analisi vengono ristrette a quei soggetti che avevano soltanto ricoperto mansioni relative all'insacco si nota un trend significativo per il cancro del polmone con l 'aumentare dell'esposizione cumulativa al cvm. Si aggiunge che lo studio non ha rilevato prove di un aumento di mortalità dovuta a tutte le malattie del sistema respiratorio (pneumoconiosi, bronchite, enfisema, asma) e  neppure alcuna indicazione di un aumento di mortalità per malattie respiratorie più specificamente tra i lavoratori addetti all' insacco o al miscelamento ancorché si precisi che tali risultati non contraddicono studi incrociati (Mastrangelo e altri) poiché è possibile che gli effetti respiratori dell'esposizione e al c v m o alla polvere di PVC non conducano alla morte.

 

Così, ancora nell’aggiornamento Ward, neppure si presenta un eccesso statisticamente significativo di cancro al cervello, ed altrettanto si conclude per i tumori del sistema emolinfopoietico.

 

Si analizzano poi gli studi della coorte USA, in particolare Wong -1991; Mundt -2000). L'aggiornamento di Mundt, più informativo, individua l'esistenza di una associazione tra esposizione a cvm e aumentata insorgenza di tumori del fegato; indica la insussistenza di una associazione tra esposizione a c v m e insorgenza di tumori del polmone.

 

Nel commentare i risultati dello studio, gli autori affermano che le cause di morte per tumore già segnalate non sono risultate in eccesso e tra di esse il tumore del polmone e i tumori emolinfopoietici e altresì le malattie respiratorie quale enfisema e pneumoconiosi. Viene inoltre precisato che l'associazione tra esposizione a cloruro di vinile e tumore del polmone  non ha trovato alcuna evidenza e pertanto non è suggerito neppure un piccolo rischio. Per il tumore al cervello si afferma che la associazione è incerta perché le elevate età al primo impiego nell'industria del c v m suggeriscono che i lavoratori potrebbero avere avuto rilevanti esposizioni ad altri cancerogeni prima dell'esposizione al cvm.

Si afferma in conclusione che lo studio ha confermato una forte associazione tra durata dell'esposizione lavorativa prima del 1974 e tumori del fegato per la gran parte dovuta  ad un grande eccesso di angiosarcomi.

 

Richiama poi il Tribunale gli studi epidemiologici e sperimentali che hanno affrontato il problema della eventuale associazione tra esposizione a PVC e insorgenza di tumori, in particolare all'apparato respiratorio e al polmone, nei lavoratori che abbiano svolto sempre o prevalentemente la mansione di insaccattori, studi che in conclusione ritiene indichino che il  p v c ha una scarsa o assente attività biologica e la sua presenza fisica nei polmoni produce pneumoconiosi benigne.

 

Partendo dall'ipotesi che l'esposizione a polvere di PVC possa dar luogo a una aumentata insorgenza di tumori del polmone, avanzata da Waxweiler (1981) che suggeriva l'idea che l'eccesso osservato fosse da attribuire non tanto alla polvere di PVC bensì al c v m intrappolato nella polvere, il tribunale richiama i successivi non confermativi studi di Storevedt-Heldaas che riscontra un eccesso solo apparente, di Jones ( 1987) che indica un chiaro difetto per la mansione di insaccattore, di Wu (1989), che esamina la stessa corte di Waxweiler (quattro impianti di polimerizzazione in attività da almeno 15 anni in uno stabilimento di sintesi di sostanze chimiche con un totale di 3635 rispetto ai 1294 lavoratori precedentemente considerati con almeno cinque anni di esposizione e dieci anni di latenza in aree e mansioni con esposizione a c v m nel periodo 1942-1973, e che non accerta nessun eccesso escludendo ogni relazione tra esposizione a polveri di PVC e tumore del polmone; di Comba- Pirastu e Chellini in cui viene invece evidenziato un eccesso per la mansione di insaccattori, peraltro con un andamento per latenza decrescente contrario, secondo il Tribunale, ad una spiegazione di natura eziologica d’altra parte non avvalorata neppure dalle sperimentazioni.

 

Si ricorda poi che in particolare sugli insaccattori di Porto Marghera sono stati condotti  tre studi: una analisi di mortalità degli insaccattori dipendenti di Montedison Enichem, una analisi di mortalità degli insaccattori appartenenti a cooperative esterne che hanno lavorato in appalto e infine su questi lavoratori è stato condotto uno studio di prevalenza sulla morbilità  (Chellini), peraltro subito ponendosi in rilievo alcuni aspetti che hanno incontrato le maggiori critiche: da un lato la scarsa informatività di detti studi per la esiguità delle sottocoorti (208 insaccattori dipendenti e 272 appartenenti alle cooperative) e dall'altro l'inaccettabilità di una analisi congiunta delle due categorie di insaccattori stante l'assenza di omogeneità dei selezionati e per di più l'età media elevata di ingresso al lavoro degli appartenenti alle cooperative e lo svolgimento di attività plurime con possibili differenti esposizioni.

E comunque i rapporti di mortalità, presenterebbero un andamento di relazione inversa tra la durata della latenza e l'insorgenza del tumore che, come detto nei precedenti studi già commentati, depone per l'insussistenza di una associazione. Lo studio di prevalenza della dottoressa Chellini ha incontrato critiche ancor più radicali inquantoche' non era stata effettuata alcuna validazione sulla qualità dei dati anamnestici  raccolti, posto che  le patologie riportate nelle schede fanno riferimento a malattie diagnosticate nell'arco della vita, e pertanto non sono correlate alla attività svolta in qualità di insaccatori, venendo così a mancare la garanzia dell'antecedenza tra esposizione e malattia.

 

In questi studi comunque, si afferma che: per quanto riguarda il tumore epatico (sia esso angiosarcoma o epatcarcinoma) la mortalità ha superato significativamente quella attesa particolarmente fra gli addetti alle autoclavi e da questa osservazione si trae la conseguenza che sia di natura causale anche la relazione fra esposizione a cvm e epatocarcinoma: tale relazione sarebbe anche plausibile sul piano biologico e sostenuta da una considerazione di tipo analogico inquantoche' i due altri agenti conosciuti che inducono  angiosarcomi epatici (arsenico e thorotrast) causano anche essi carcinomi epatici (Popper 1978 ).

 

Per quanto riguarda la mortalità per tumore polmonare si è osservato un incremento significativo fra gli insaccattori in considerazione dell'intensità dell'esposizione a c v m , in particolare fra il 1950 e  il 1970 (non meno di 50 ppm) e tenuto conto che nell'attività dell'insacco del PVC si era in presenza di elevati livelli di polverosità (in proposito si citano gli autori di studi che hanno descritto casi di pneumoconiosi insorti in soggetti esposti a polveri di PVC e tra questi lo studio di Mastrangelo).

 

Per quanto riguarda gli altri tumori  che secondo IARC 1987 sarebbero ricollegabili all'esposizione a c v m si osserva che nella corte Montedison Enichem di Porto Marghera sono stati individuati due casi di tumore dell'encefalo (SMR 77) e 9 tumori del sistema emolinfopoietico (SMR 134): si riconosce peraltro la ignota eziologia dei tumori cerebrali che anche gli studi epidemiologici più ampi non sono stati in grado di ricollegare a specifiche esposizioni; si riconosce altresì che la categoria dei tumori del sistema emolinfopoietico comprende entità che hanno caratteristiche nosologiche assai diverse per le quali sono diversi anche i fattori di rischio ipotizzati.

Si afferma conclusivamente che i risultati relativi a questi due tipi di tumore devono essere considerati tenendo conto dell'esiguità numerica delle osservazioni e delle conoscenze disponibili sulla eziologia.

 

I suddetti dati sarebbero poi sostanzialmente confermati dalla memoria depositata dai consulenti epidemiologici del pubblico ministero contenente un aggiornamento della mortalità al 31 luglio 1999, peraltro non sottoposto al contraddittorio dibattimentale e comunque esaminata e utilizzata dal Tribunale come un approfondimento, proveniente dalla pubblica accusa, degli studi precedenti. In particolare, sulla base dell' incremento nel numero di decessi per tumore epatico primitivo accertato nella coorte di Porto Marghera alla data del luglio 1999 si ribadisce con questo ulteriore elemento la sussistenza di un eccesso di tumori epatici diversi dall' angiosarcoma, sia con riguardo ai lavoratori della coorte nel suo complesso che in maniera ancora più evidente tra coloro che hanno svolto la mansione di autoclavisti che notoriamente sono stati esposti alle concentrazioni più elevate. E così sarebbe stato rilevato un eccesso di tumori polmonari nell'ambito della coorte, con specifico riferimento alla mansione di insaccattore esposto alle polveri di PVC.

 

Circa i fattori di confondimento, sia rispetto ai tumori epatici che a quelli polmonari, i consulenti del pubblico ministero, facendo ricorso ad un raffronto tra i lavoratori della coorte e i lavoratori di altri settori (municipalizzata di igiene urbana e amministrazione provinciale di Venezia) per quanto riguarda la propensione a bere alcolici e individuando nei primi stime più basse dei consumi alcolici,  affermano che l'assunzione di alcol  non  poteva spiegare l'incremento di mortalità rilevato per tumori epatici diversi dall’angiosarcoma sia nella coorte complessiva e sia, a maggior ragione, nella categoria degli autoclavisti.

 

Per quanto riguarda il fumo si è fatto invece riferimento alla percentuale di fumatori nella popolazione italiana (tra il 53 e 75%)  che si stimava mediamente uguale a quella presente tra gli insaccattori e si concludeva che gli incrementi di mortalità in tali categorie per tumore del polmone non era spiegabile con l'abitudine al fumo.

 

Sempre con specifico riferimento ai lavoratori della corte di Porto Marghera, il professor Diego Martines, consulente del pubblico ministero, ha presentato uno studio caso- controllo sui lavoratori affetti da angiosarcoma epatico, epatocarcinoma, cirrosi epatica, e epatopatia cronica.

 

Sulla scorta dei dati rilevati e riportati in tabella si evidenzia che per tutte le malattie considerate il rischio non cresce gradualmente dalla esposizione minore a quella maggiore, bensì si innalza bruscamente solo nella categoria con esposizione alta. Inoltre il consulente sottolinea che tutti i casi di angiosarcoma si sono manifestati in quei lavoratori che subirono la prima esposizione in un arco di tempo molto ristretto compreso fra il 1955 e il 1967 e ha altresì evidenziato che i tempi di latenza media sono di 29 anni e il tempo di esposizione media dei lavoratori che sono stati affetti da angiosarcoma era di 18 anni.

 

Per quanto riguarda gli epatocarcinomi nella tabella numero 4 il consulente rileva 13 casi nella categoria ad alta esposizione 1 caso nella categoria a media esposizione e 2 per casi nella categoria a bassa esposizione. Peraltro per tutti i 3 casi delle categorie bassa e media esposizione la riferibilità all'esposizione professionale dell'epatocarcinoma e' messa in dubbio dallo stesso consulente. I 13 casi di epatocarcinomi ad alta esposizione presentano un tempo di latenza medio dalla prima esposizione pari a 31 anni (range 22 - 42) e la prima esposizione in tutti questi pazienti si è verificata in un arco ristretto di tempo compreso tra i 1952 e il 1961. 

Due pertanto le conclusioni da trarre: tutti i casi  di angiosarcoma e di epatocarcinoma della coorte di Porto Marghera riguardano soggetti esposti ad alte esposizioni e il tempo di calendario è tra gli anni '50 e '60.

 

Nelle successive precisazioni a seguito dell’osservazione  dei consulenti della difesa secondo i quali dalle stesse suddette conclusioni emergeva la presenza di una soglia di fatto del rischio, sosteneva il consulente che l'insorgenza di angiosarcoma  anche dopo esposizioni limitate a c v m veniva ad escludere in linea generale la presenza di una soglia nell'azione del cloruro di vinile sia per la diversa suscettibilità individuale (genetico e biochimica) al c v m sia per l'azione tossica sinergica dell'alcol e del cloruro di vinile, in quanto la responsabilità del consumo di alcol e dei virus B e C  nel determinare la cirrosi epatica e l’epatocarcinoma andava valutata in uno con l’eventuale effetto aggiuntivo o primario dell'esposizione al c v m.

 

Si insisteva dunque nell’affermare che l'esposizione al c v m è in grado di stimolare la fibrogenesi conseguente al danno epatocellulare provocato dai fattori eziologici extralavorativi, quali alcool o i virus B e C , e di innescare e accelerare tutti quegli eventi che portano alla cirrosi, agendo in tal caso come fattore concausale.

 

Ricorda poi il Tribunale gli studi caso-controllo dei consulenti dell’accusa privata, professor Gennaro e professor Mastrangelo, volti all’approfondimento della relazione tra mortalità per tumore polmonare ed esposizione alle polveri di PVC.

In particolare Mastrangelo, sulla scorta dei dati analizzati e delle valutazioni peraltro analiticamente criticate dai consulenti della difesa, afferma che il fumo non rappresenta un fattore di confondimento nella associazione tra esposizioni a polveri di PVC e rischio di cancro polmonare inquantoché, pur essendo il fumo di tabacco una causa di cancro polmonare, esso non è risultato correlato con le esposizioni a polveri di PVC nella popolazione in studio, e si ribadisce il concetto della concausalità sostenendosi che,  anche se tutti i casi esaminati (eccetto uno) erano fumatori e anche se qualcuno di loro era stato esposto ad altri cancerogeni polmonari prima di lavorare come insaccatore di PVC a Porto Marghera, la responsabilità della esposizione a polvere di PVC rimane comunque per il fatto che la sostanza attiva il penultimo stadio della cancerogenesi, sicché sarebbe pur sempre un agente concausale.

Ricorda al riguardo il Tribunale come il professor Mastrangelo, nelle precisazioni che ha ritenuto di fare per iscritto rispetto alle contestazioni cui è stato sottoposto in sede di controesame dai difensori degli imputati, evidenzia il suo assunto nel modo seguente: entrambe le sostanze (c v m ePVC) sono cancerogene e la seconda può veicolare la prima; entrambe provocano la fibrosi polmonare che può indurre a un eccesso di cancro polmonare.

Si ricordano altresì le obiezioni dei consulenti della difesa: non solo il prof. Mastrangelo ha proposto proprie ipotesi non convalidate scientificamente e ha mosso critiche infondate agli studi epidemiologici che non evidenziano eccessi significativi di tumore polmonare associato a cvm/PVC, ma la sua ipotesi principale si basa su premesse destituite di ogni fondamento, in quanto si osserva che il PVC non è di per sé considerato una sostanza cancerogena , posto che lo IARC lo classifica nel gruppo 3 proprio per la inadeguata evidenza di cancerogenità per l'uomo e per l'animale da esperimento, e ancora meno è dimostrato che esso possa indurre fibrosi polmonare, sicché non può condividersi che la causa di eccessi di tumore al polmone possa essere il PVC.

 

Passando alla problematica del rischio da esposizione, il Tribunale ha ricordato come accusa pubblica e privata hanno sottoposto all’attenzione del collegio valutazioni di rischio sulla base di modelli matematici. Al riguardo si evidenzia che: l' E P A ha divulgato due diverse stime di rischio per l'esposizione a c v m: la prima nel 1994 e la seconda nel 2000 in cui il rischio è stato stimato di dieci volte più basso rispetto alla stima precedente.

Si osserva però che le valutazioni dell‘EPA non intendono stabilire il rischio effettivo o le conseguenze sulla salute per le persone, ma piuttosto sui rischi potenziali utilizzando i dati sperimentali sugli animali, ma anche opzioni di default mediante metodologie matematiche di estrapolazione lineare alle basse dosi per i cancerogeni oppure estrapolazioni non lineari (e cioè modelli matematici che ammettono una soglia) per le sostanze non genotossiche, per cui, essendo il cvm considerato genotossico  la risposta e il rischio sono nulli solo per una dose nulla; egualmente l’Unione Europea e l’Organizzazione mondiale della sanità assumono esplicitamente il principio di assenza di soglie per i cancerogeni e in Italia la Commissione Consultiva Tossicologica Nazionale ha  assunto identica posizione.

 

La ragione fondamentale della assenza di soglia per i cancerogeni genotossici deriva dall'osservazione che la relazione tra formazioni di addotti e dose  di regola è lineare con la dose e la probabilità che una molecola attiva incontri il punto critico del DNA è proporzionale al numero di molecole presenti. Un ulteriore argomento, basato su semplici criteri matematici, è quello che in presenza di un'esposizione di fondo a cancerogeni, una ulteriore piccola  esposizione si andrà a collocare nel tratto lineare della relazione dose- risposta.

 

Ma l’OMS stima il rischio cancerogeno anche sulla base di dati  epidemiologici e a tal fine utilizza il parametro della rischio relativo (RR) definito come il rapporto tra il numero di casi osservato e atteso nella popolazione esposta; diversamente il centro tossicologico e ecotossilogico europeo dell'industria chimica (ECETOC 1998), nel rapporto dedicato al cloruro di vinile, nelle sue conclusioni, specifica che "sebbene non sia possibile stabilire definitivamente livelli sicuri di esposizione per i cancerogeni genotossici, l'evidenza presentata in questo rapporto non suggerisce che l'esposizione lavorativa ai livelli correnti nel rispetto del limite di 3 ppm  comporti rischi significativi per la salute "; il professor Zapponi, consulente tecnico dell'accusa privata Presidenza del Consiglio e Ministero dell'Ambiente, partendo dalla premessa che non può essere identificata una soglia per i cancerogeni genotossici non essendo possibile definire un livello senza effetto,  passa in rassegna le principali stime,  su dati epidemiologici e su dati sperimentali, di rischio cancerogeno per il c v m, e nelle considerazioni conclusive trae una prima considerazione: che queste valutazioni di rischio, pur operate da autori diversi e pur considerando che le diverse stime si basano su diverse categorie di dati (epidemiologici e sperimentali), pur tuttavia pervengono a risultati molto simili.

 

L'indicazione che se ne trae è che una esposizione  lavorativa presumibilmente priva di un rischio significativo dovrebbe andarsi a collocare a livelli di frazione relativamente piccole di 1 ppm e l'uso del modello a soglia, pur in presenza di un cancerogeno genotossico, ha portato a stime di livelli di esposizione sicura tra 0.1 a e 0.6 ppm che sono valori di un ordine di grandezza superiori a quelli stimabili con valutazioni di rischio che assumono l'assenza di soglia;il consiglio nazionale delle ricerche degli Stati Uniti (NCR), cui è stato chiesto dal congresso americano di valutare l'operato dell' EPA per quanto attiene la valutazione del rischio, ne ha innanzitutto individuato l'ambito di applicazione, assumendo che "le stime del rischio ottenute non sono stime scientifiche del vero rischio di tumore ma sono utili ai regolatori per stabilire delle priorità di intervento": si tratta cioè di stime estremamente conservative che ricomprendono opzioni inevitabilmente politiche di protezione della salute pubblica.

Si evidenzia conseguentemente che le scelte politiche portano a opzione di default utilizzate ai fini di aggirare il problema dell'incertezza sui seguenti problemi maggiormente rilevanti:1) mancanza di dati scientifici che correlino in maniera quantitativa l'esposizione a sostanze chimiche con i rischi per la salute; 2) divergenze di opinioni all'interno della comunità scientifica sul livello dell'evidenza scientifica; 3) mancanza di una conformità nel riportare i risultati delle ricerche; 4) incertezza dei risultati prodotti dai modelli teorici.

 

E così, ogni qualvolta il procedimento di valutazione del rischio  si scontra con elementi in cui il livello di conoscenza scientifica può risultare incompleto, problematico, discordante, non convincente, è necessario far ricorso a congetture e semplificazioni, assumendo per l'appunto opzioni di default di cui le più importanti sono: 

1) gli animali da laboratorio sono un surrogato per gli esseri umani nella valutazione del rischio dei tumori e i risultati positivi negli esperimenti sono presi come evidenza della capacità di una sostanza chimica di causare il tumore negli uomini; 

2)  gli esseri umani sono sensibili come le più sensibili specie animali; 

3) gli agenti che risultano positivi negli esperimenti a lungo termine sugli animali e che mostrano anche evidenza di attività promovente devono essere considerati cancerogeni completi; 

4) anche una sola molecola della sostanza chimica ha associata una probabilità di indurre tumori che può essere calcolata mediante il modello linearizzato multistadio.

 

Osserva dunque il Tribunale che in realtà nella comunità scientifica e' messo in discussione soprattutto l'assioma della equivalenza alte-basse dosi; ed in proposito si ricorda l’affermazione di un ricercatore di biologia molecolare (Ames) secondo la quale "vi sono sempre più prove che la scissione cellulare causata dall'alto dosaggio, piuttosto che dalla sostanza chimica in se', aumenti il tasso di positività poiché ogni volta che una cellula si divide aumenta la probabilità che si verifichi una mutazione e così aumentando in tal modo il rischio di tumori”, e si ricordano altresì gli studi di Swemberg secondo cui a seguito delle sperimentazioni a basse dosi effettuate "esiste la prova che bassi livelli di esposizione non sono cancerogeni né per gli uomini né per i roditori".

 

Onde nella comunità scientifica si propone una valutazione realistica del rischio che superi il postulato ritenuto estremo e irrazionale che "nessuna dose è sicura" proprio alla luce dei risultati sperimentali negativi alle basse dosi e altresì della osservazione epidemiologica sulla base degli aggiornamenti delle coorti americane ed europee da cui risulta che nessun lavoratore esposto per la prima volta c v m rispettivamente dopo 1968 e dopo il 1972 risulta essere affetto da angiosarcoma, così da far ritenere che  le esposizioni normativamente imposte e osservate sono sufficientemente protettive ( Storm-1997). 

 

In conclusione secondo il Tribunale si può affermare che i criteri valutativi che stanno alla base della valutazione del rischio, che ricorrono spesso a opzioni di default, che non solo sono indimostrate, ma falsificate anche dai risultati cui è pervenuta la comunità scientifica, possono tutt’al più essere utilizzati a fini precauzionali ma non possono essere richiamati a fini conoscitivi in particolare per accertare quale sia la dose idonea a produrre effetti oncogeni sull’uomo.

Ad analoghe conclusioni di incertezza a livello scientifico ai fini di utilizzo nell’accertamento probatorio del nesso causale, perviene il Tribunale, dopo avere analiticamente esaminato le posizioni dei consulenti dell’accusa e della difesa e gli specifici studi della comunità scientifica internazionale, in ordine al tema dei meccanismi molecolari e della carcinogenesi, sia relativamente alla problematica della soglia che alla problematica degli organi bersaglio.

Quanto alla soglia, rimarca inoltre il Tribunale i risultati dello studio di Storm e Rozman ( 1997) che ha esaminato 80 mila lavoratori esposti ai bassi livelli dopo il 1968 negli Stati Uniti e dopo il 1972 in Europa e non ha osservato alcun angiosarcoma, e che conclude ammettendo l'esistenza di una soglia che resta avvalorata dalla considerazione delle informazioni derivanti dagli studi epidemiologici e dagli stessi registri internazionali dei casi di tumore da cui risulta per l'appunto che negli Stati Uniti non era stato accertato alcun angiosarcoma nei lavoratori esposti per la prima volta al c v m a partire dal 1968, pervenendo gli autori alla conclusione che la riduzione delle esposizioni entro il range e 0. 5 - 5 ppm possa ritenersi adeguatamente  protettiva.

Gli autori mettono anche in discussione l'ipotesi di default che l'uomo abbia una suscettibilità alla angiosarcoma indotto da c v m pari a quella dei ratti esposti: infatti non solo l'uomo sarebbe meno sensibile dei ratti ai cancerogeni genetici in generale a causa della durata di vita più lunga, della minore velocità del suo metabolismo basale e delle maggiori capacità di riparazione del DNA, ma anche perché dai risultati sperimentali è stata osservata un'incidenza di angiosarcomi tra i ratti almeno 100 volte superiore rispetto all'uomo esposto al c v m e nell'ambiente di lavoro.

 

Da parte del Tribunale si constata che tali ipotesi hanno il pregio di essere compatibili con i dati epidemiologici disponibili, mentre le ipotesi dell'assenza di soglia e della suscettibilità dell'uomo uguale o minore a quella degli animali non hanno tale supporto e, anzi, si basano su postulati che possono avere validità in un ambito prettamente precauzionale, ma sono smentiti dall’osservazione scientifica, potendosi concludere pertanto che i risultati delle osservazioni epidemiologiche e dei dati sperimentali proprio perché convergenti  hanno una loro rilevanza sotto il profilo probatorio della presenza di una soglia di non effetto del cvm o di una sua idoneità lesiva solo a concentrazioni di una qual certa entità e che vengono individuati in 10 ppm (Swemberg), atteso che peraltro dagli studi analizzati non emerge alcun dato dal quale ricavare che le basse dosi vigenti successivamente alla oncogenità del c v m abbiano avuto un qualsiasi effetto su incidenza, latenza o progressione dell’ angiosarcoma.

 

Comunque, sulla base delle opinioni espresse  dai consulenti delle parti e dell'ampia letteratura cui hanno fatto riferimento, il tribunale rileva come gli approdi scientifici siano ancora parziali e non sempre coerenti con le ipotesi assunte, sicchè appare difficile poter affermare che si siano raggiunti risultati di conoscenza in base ai quali poter affermare che sussiste un meccanismo specifico di azione del cvm nella causazione dei tumori.

 

Si evidenzia al riguardo che l' oncogenesi è una scienza in rapida evoluzione, come e' messo in rilievo dai risultati degli studi sperimentali o  osservazionali sopra riferiti, e non sempre i protocolli sperimentali sono basati su modelli comuni. E' ancora in discussione il modello di cancerogenesi, e cioè se si tratta di un processo multistadio in cui un numero pur limitato di alterazioni genetiche sia alla base dell'insorgenza del tumore ovvero una più ampia instabilità genetica che determinerebbe la mutazione di una gran parte dei geni a seguito di un difetto dei sistemi di riparazione del DNA che favoriscono l'instabilità del genoma: già queste due contrapposte o divergenti teorie rendono problematico stabilire la rilevanza, pur osservata, di mutazioni ai geni p53 e k-ras ai fini della causazione del tumore, affermandosi da questa ultima teoria che la loro mutazione non sarebbe che la conseguenza delle alterazioni della struttura del DNA causate dalla instabilità genetica.

 

Per quel che riguarda il cloruro di vinile la stessa esistenza di un meccanismo d'azione specifico di tale sostanza è affermato dai consulenti dell'accusa ma al tempo stesso dagli stessi viene ammesso che "i dati non sono ancora sufficienti per suggerire che esista una modalità specifica che permetterebbe di identificare l'azione del cloruro di vinile". E d’altra parte la stessa relazione EPA (2000) manifesta (pag 52 e seguenti) problematicità al riguardo, circostanza che non può non lasciare intendere quale sia lo stato delle conoscenze ancora incerte e passibili di falsificazioni nel loro progredire.

Peraltro ritiene il Tribunale non si possa negare il dato di fatto che il cvm è cancerogeno, anche se non si conoscono i particolari del suo percorso genotossico di cui emergono sperimentalmente in via ipotetica alcuni tratti pur significativi: il cvm si metabolizza nel metabolita reattivo "presumibilmente il CEO" che "diversi indizi indicano come genotossico in quanto interagisce direttamente con il DNA" (in tal senso il citato rapporto EPA a pagg.48-59).

E, quanto agli organi bersaglio, se ne rileva, sulla scorta degli studi esaminati che lo hanno evidenziato, maggior incidenza e specificità negli angiosarcomi di animali inalati e di lavoratori esposti a cvm. Tale maggior incidenza non è stata invece individuata in altri organi (polmone e cervello) attraverso studi metodologicamente corretti, condivisi e reiterati. Si ricorda al riguardo che le mutazioni a p53 sono state osservate sia in lavoratori esposti che non esposti pressochè in pari percentuale affetti da epatocarcinoma e comunque tali mutazioni non solo non sono specifiche ma "possono riflettere meccanismi endogeni piuttosto che essere indotte da cancerogeni esogeni"(Weihrauch).

 

Osserva poi il Tribunale come la  tesi accusatoria si sviluppi ulteriormente deducendo l’ipotesi della concausalità, a tal fine sostenendo la potenzialità dell'alcol di interagire con il cvm. Sulla scorta delle critiche dei consulenti della difesa, metodologiche e basate su studi tossicologici e sulle complesse dinamiche del processo metabolico del cvm e dell'alcol si ritiene però che non sussistano dati scientifici su cui solidamente basare l'esistenza della asserita interazione tra etanolo e cvm e, anzi, l'analisi delle reazioni metaboliche ipotizzabili conduce a ritenere improbabile l'interazione suggerita dai consulenti del pubblico ministero che non hanno dimostrato come verrebbero a determinarsi gli effetti sinergici tra le due sostanze.

 

Sulla scorta dei dati e studi di cui sopra, il Tribunale procedeva dunque alla valutazione dei fatti di cui in imputazione, premettendo brevi cenni sulle note teorie della causalità, che riteneva necessari perché nel processo che ci occupa vi sarebbe stata la insistita tendenza a sostituire il modello classico di causalità con la causalità generale, intesa come idoneità della sostanza chimica a produrre certi tipi di evento, oltretutto senza preoccuparsi di verificare tutti gli apporti scientifici e forzando i passaggi con ipotesi di default o presunzioni o assimilazioni e, soprattutto, trascurando di verificare la effettiva incidenza della sostanza sul singolo caso. Impostazione che, secondo il Tribunale, non può trovare consenso posto che, in via di principio, la causalità generale non può essere ritenuta di per sé sufficiente a spiegare il nesso causale tra la malattia che ha colpito il singolo soggetto e l'idoneità della sostanza a causarla.

 

Si afferma infatti che tra gli stessi epidemiologi vi è largo consenso nel ritenere che i loro studi, che riguardano popolazioni generali e si propongono scopi preventivi di tutela della salute pubblica, non sono in grado di spiegare la causalità specifica e cioè di attribuire i singoli eventi lesivi a singoli comportamenti.

Anche perché gli studi epidemiologici non si basano su un censimento di casi provatamente causati dall'esposizione a sostanze tossiche (soprattutto quando la pluralità dei casi dipende da una pluralità di fattori eziologici), ma solo di differenze tra i casi osservati e i casi attesi: in tale ambito la causalità generale ha un significato ancor più circoscritto nei confini di tale scienza e indica più propriamente un eccesso di rischio senza costituire in sé una prova della idoneità della sostanza a provocare la malattia.

 

E' per questa ragione che non c'è alcuna possibilità di distinguere tra i casi esposti chi non si sarebbe ammalato in assenza di esposizione e chi invece si sarebbe ammalato egualmente. Infatti, salvo rari casi (tra cui rientra oltre che il mesotelioma da asbesto,  l'angiosarcoma per esposizione a c v m) le neoplasie professionali non hanno carattere di specificità e non sono distinguibili  neppure istologicamente sotto il profilo  morfologico da quelle extra professionali.

Si ritiene dunque che l'incertezza domina sul caso singolo proprio perché la quasi generalità dei tumori ha cause in elevatissima percentuale extraprofessionali ignote e gli scienziati non hanno ancora compreso appieno il modello molecolare nella carcinogenesi e formulano pertanto ipotesi per cui qualsiasi dichiarazione riguardo al ruolo di qualsivoglia agente in quanto cancerogeno trova un limite nella sua ipoteticità. E si richiamano concetti espressi da epidemiologici e dalla stessa EPA nonché studi soprattutto negli USA che hanno messo in rilievo che solo una piccolissima parte dei tumori è in realtà ricollegabile all'attività industriale (dall'1 al 3% secondo l'agenzia) mentre la percentuale residua è dovuta a cause diverse, cioè all'esposizione a inquinanti diffusi nell'ambiente o all'ingestione di inquinanti che passano nella catena alimentare il cui uso è normalmente consentito. Ricordandosi altresì che  gli stessi consulenti della accusa pubblica e privata hanno concordemente affermato che lo studio epidemiologico non può bastare perché suggerisce inferenze  eziologiche senza però poterle dimostrare in rapporto ai singoli individui.

 

Se dunque la causalità in epidemiologia, anche quando affermata dalle agenzie, non solo riguarda sempre e solo il livello di popolazione e non del singolo, ma può essere soddisfatta da evidenze scientifiche ancora deboli e incerte dovendo assolvere a finalità precauzionali, sarebbe errato affidarsi, ai fini di ritenere assolto ogni compito accertativo della causalità generale, alle valutazioni e alle enunciazioni delle stesse: eppure i consulenti medico legali dell'accusa pubblica e privata hanno assunto come dato indiscusso proprio le indicazioni di IARC 1987, senza neppure tenere conto degli studi successivi e in particolare degli aggiornamenti del 1991 e del 2000 illustrati in aula dai loro coautori dott.Simonato e dott.Boffetta.

Diverso invece l’approccio, in quanto, una volta chiarito il contributo che l'epidemiologia, attraverso il calcolo del rischio attribuibile, può dare alla soluzione del problema, la sussistenza del nesso causale per l’attribuzione del fatto contestato va argomentata giuridicamente considerando tutte le implicazioni e considerazioni  che vanno ben oltre quelle epidemiologiche, e decisa dal giudice sulla scorta dei principi di diritto ai quali il Tribunale si ispira enucleandoli dopo excursus anche relativo alla giurisprudenza e dottrina americana che ben metterebbero in rilievo, pur nell'ambito del processo civile, le spinte che tendono a superare il modello meccanicistico di causalità evocate dallo stesso P.M.: l'esigenza di una tutela delle vittime, dei beni della salute e della vita umana.

 

Osserva il Tribunale che seppur detti beni devono essere tenuti senz'altro in alta considerazione, e seppur queste sono le motivazioni più o meno esplicite che spingono a orientamenti che introducono nel processo ricostruttivo del nesso causale istanze di prevenzione generale (e si cita S.C 12/7/91 -sez 4° cui si rifà il P.M.), neppure bisogna trascurare che nell'ambito del processo penale vi sono altri beni da tutelare che sono quelli della responsabilità personale e della libertà. Ritiene dunque il Tribunale di uniformarsi ai più recenti e più rigorosi orientamenti della giurisprudenza della S.C. così potendosi enucleare i principi in diritto applicati: le esigenze di certezza e garanzia, il rispetto dei principi di legalità e personalità della responsabilità penale, di rango costituzionale, devono essere soddisfatti mediante il mantenimento di un rigoroso modello causale ove il rapporto di condizionamento sia spiegato o daleggi universali, secondo il modello nomologico-deduttivo, o da legi di copertura scientifico-statistiche, secondo il modello statistico-induttivo.

 

Anche le leggi statistiche possono essere utilizzate nella spiegazione dell’evento purché il coefficiente percentualistico consenta di inferire l’explanandum con quasi certezza sulla base di un arelazione logico-probabilistica, e, al tempo stesso, si possa razionalmente escludere che l’evento si sia verificato nel caso concreto per cause esclusive diverse dalla condotta dell’agente;la mancanza di certezze scientifiche o comunque di consenso generalizzato nella comunità scientifica non legittima il ricorso a criteri meramente probabilistici di grado difficilmente determinabile, ancorché qualificato “alto” o “elevato”. Il ricorso a tali criteri rischia infatti di introdurre nell’accertamento del nesso causale un libero convincimento del giudice, sia pure nobilitato dallo scopo di soddisfare esigenze ed attese  di giustizia;dalle scienze e dai limiti di conoscenza che esse pongono non si può prescindere; si può solo pretendere l’adozione dei seguenti rigorosi criteri:

1) le inferenze causali devono essere tratte dalle scienze che attraverso un rigoroso e corretto metodo scientifico apportino una effettiva e affidabile conoscenza scientifica; 

2) l'affidabilità delle conoscenze, sia pure suscettibili in futuro di ulteriori apporti che possono modificarle o addirittura falsificarle, è determinato dalla validazione che riceve e dalla accettazione generale o preponderante nella comunità scientifica nonchè dalla verifica empirica delle sue spiegazioni mediante il controllo dell'ipotesi attraverso la confutazione così da raggiungere una "corroborazione provvisoria "; 

3) le conclusioni debbono essere comunque verificate nel loro progressivo evolversi e sempre confrontate con quelle di altre discipline per accertare la coerenza complessiva del risultato raggiunto;

4) l’incertezza scientifica che dovesse, comunque, residuare va risolta sia nell'ambito del rapporto causale sia nell'ambito della imputabilità soggettiva secondo la regola di giudizio che la responsabilità deve essere provata " oltre il ragionevole dubbio ", regola di giudizio che oramai fa parte del nostro ordinamento;

5) la causalità generale, intesa come idoneità della sostanza chimica a produrre certi tipi di evento, non può essere ritenuta di per sé sufficiente a spiegare il nesso causale tra la malattia che ha colpito il singolo soggetto e l’idoneità della sostanza a causarla. L’accertamento della causalità non può essere ricavato dal solo fatto che la condotta abbia aumentato il rischio del verificarsi dell’evento. Ciò implicherebbe una illegittima confusione tra il piano soggettivo e quello soggettivo, facendo dedurre l’attribuibilità dell’evento lesivo dall’inosservanza di norme cautelari;

6) gli studi epidemiologici, avendo ad oggetto popolazioni generali e proponendosi scopi preventivi di tutela della salute pubblica, non sono assolutamente in grado di spiegare la causalità individuale e cioè di attribuire i singoli eventi lesivi a singoli comportamenti.

Osserva peraltro il Tribunale come nella specie proprio la causalità generale da esposizione a clorulo di vinile è stata utilizzata dall’accusa ai fini di mostrare non solo la idoneità lesiva della sostanza, ma altresì per indicare gli indici di rischio relativo per ciascuna  neoplasia che si è ritenuta in qualche misura, forte o debole , associata all'esposizione. E però, ritiene il Tribunale, dagli stessi studi epidemiologici, tossicologici e sperimentali risulta una causalità generale debole, per lo più al di sotto non tanto del raddoppio del rischio, come almeno pretende la giurisprudenza civilistica americana del più probabile che no, ma addirittura della significatività statistica, ma ciò nonostante  sempre e comunque  assunta come ineludibile presupposto della causalità individuale  anche di fronte a fattori di rischio alternativi di alta potenza esplicativa che  sono stati valutati come concausa della malattia e mai come fattori causali di per sè sufficienti e necessari.

 

Si osserva al proposito che le conclusioni di IARC 1987, punto di partenza per le imputazioni e di approdo per le conclusioni del PM, salvo alcuni aggiustamenti quantitativi dell'ultimo momento, che indicavano una associazione tra esposizione a CVM e tumori al fegato (angiosaromi e carcinomi epatocellulari), tumori polmonari, tumori cerebrali, tumori del sistema emolinfopoietico, melanomi, hanno subito rivisitazioni critiche e ampi aggiornamenti per la maggior parte incorporati nei due studi multicentrici americano ed europeo ( Wong 1991; Simonato 1991), ulteriormente aggiornati di recente (Ward 2000 e Mundt 2000 ) e ampiamente discussi in sede dibattimentale. Sulla base di tali studi, considerando anche i risultati dello specifico studio sulla coorte di Porto Marghera, che hanno evidenziato assenza di eccesso o non significatività dell’eccesso per i tumori al cervello, del sistema emolinfopoietico, del fegato diversi dall’angiosarcoma, del polmone, nonché per la cirrosi epatica e per le malattie dell’apparato respiratorio, si osserva che gli stessi consulenti  epidemiologici dell’accusa(si cita l’ultima relazione presentata dai consulenti  Comba- Pirastu) avevano escluso o comunque espresso dubbi e perplessità in ordine alla correlabilita' con le sostanze in considerazione quantomeno dei tumori del cervello, del sistema emolinfopoietico, dei melanomi, ma si potrebbe aggiungere anche del tumore della laringe .

 

Ritiene invero il Tribunale che rispetto a queste patologie, sulla base degli studi epidemiologici complessivi e più aggiornati e delle più  perentorie conclusioni cui erano pervenuti gli stessi Simonato e Boffetta, autori dello studio multicentrico europeo e del successivo aggiornamento, esaminati nel corso del dibattimento, può affermarsi che non sussiste la prova di una causalità generale e cioè a dire della idoneità del c v m e del PVC a provocare tali tumori. Si ritiene infatti, che l'evidenza globale degli studi epidemiologici più recenti e più significativi (e, come dichiarato da Simonato su espressa domanda, bisognava ”non considerare l'evidenza di Porto Marghera diversa dal resto dell'evidenza”) individua una associazione forte tra esposizione a c v m e  angiosarcoma epatico e eccessi di rischio nello svolgimento di talune mansioni (autoclavisti e insaccatori) esposte ad elevate concentrazioni per l’epatocarcinoma e per il tumore polmonare mentre le altre associazioni, pure ipotizzate negli studi passati cui aveva fatto riferimento IARC, non sono state confermate.

Ma il PM non ne avrebbe tratto le logiche e  conseguenti conclusioni, in quanto, pur avendo al termine della requisitoria presentato le schede riferite a 263 parti offese relative a 311 patologie rispetto alle 721 patologie riferite a 542 parti offese introdotte con il decreto di rinvio a giudizio e con le successive contestazioni supplettive nel corso del dibattimento, tuttavia, non ha ritenuto di fornire una spiegazione di questa modificazione della contestazione originaria, limitandosi ad affermare che i casi non ripresentati avrebbero avuto comunque un loro rilievo nell'ambito dei reati di strage e di disastro contestati.

Sono stati eliminati tutti i tumori gastrici e del pancreas che erano stati associati alla esposizione a dicloroetano, ed altresì le broncopatie  e le broncopneumopatie (87), nonchè le pneumoconiosi collegate all'esposizione a PVC e, soprattutto, quest'ultime indicate come predittive del tumore polmonare di cui dagli studi epidemiologici è stato rilevato un eccesso nella mansione di insaccatore che supporterebbe l’associazione, prendendo atto il PM che anche IARC 1999 concludeva per "inadeguata evidenza di cancerogenicità nell'uomo". Le altre  patologie  (neoplastiche e non ) siano state ritenute o non sussistenti a seguito della esame della documentazione medica e dell'anamnesi generale e lavorativa ovvero non correlate all'esposizione.

 

Ma, secondo il Tribunale la logica conseguenza sarebbe che essendo insussistenti o comunque non causalmente riconducibili esse non possono avere rilievo neppure nelle fattispecie più ampie di pericolo per la pubblica incolumità cui il pubblico ministero ha fatto riferimento. 

Si osserva che alla debolezza delle evidenze epidemiologiche il PM ha cercato di supplire facendo ricorso alla biologia molecolare e ai risultati ancora incerti, contraddittori e lacunosi che allo stato è in grado di offrire, in particolare sostenendo la tesi dell’azione sinergica tra i fattori di rischio noti ( alcool, epatiti , fumo ) e le sostanze in discussione che in tal modo assumerebbero il ruolo di concause potenzianti gli effetti lesivi: non considerando che nel nostro ordinamento la concausa ha lo stesso statuto epistemologico della causa con la conseguenza che se non è dimostrato che un fattore è causa di un evento neppure può assumere la veste di concausa

 

Il PM nessun rilievo ha invece dato all'evidenza epidemiologica e sperimentale che indiscutibilmente individua negli effetti del cvm un rapporto dose–risposta la cui considerazione, da un lato, avrebbe ricollegato gli eventi alle esposizioni di un lontano passato e, dall’altro, lo avrebbe indotto ad escludere la rilevanza causale delle esposizioni  successive al 1974.

 

Infatti in tutte le coorti, anche in quella in considerazione in questo processo, i tumori rilevati e in particolare l'angiosarcoma, ma anche l'epatocarcinoma in coloro che hanno svolto la mansione di autoclavisti e il tumore al polmone in coloro che hanno svolto solo la mansione di insaccattori, sono tutti riconducibili ad elevate o elevatissime esposizioni che erano quelle proprie degli anni '50 '60 e primi anni '70 sino alla scoperta della cancerogenità della sostanza. E si citano al riguardo i già ricordati studi epidemiologici Simonato, Ward, Mundt, ma anche Martines e Mastrangelo dai quali si può individuare un accordo uniforme e assoluto tra tutti i consulenti che hanno partecipato al presente processo, in ordine a tale conclusione. Pacifico, infatti, che nessun angiosarcoma del fegato (che è il tumore tipico da esposizione a c v m) si è manifestato in lavoratori assunti successivamente al 1973 nella corte europea e successivamente al 1967 nella corte statunitense e in quella di Porto Marghera.

 

Ulteriore conferma deriverebbe dal recente studio di Rozman e Storm (1997) dal quale emerge che " fino all'ottobre del 1993 nessun nuovo caso di angiosarcoma epatico fu riportato dal registro internazionale fra i più di 80 mila lavoratori degli Stati Uniti che erano stati esposti per la prima volta al cloruro di vinile a partire dal 1968 ", traendone la conseguenza che " la riduzione delle esposizioni entro il range di 0, 5-5 ppm sembra essere stata fino ad ora adeguatamente protettiva".

Si osserva poi che se si considera che la dose cumulativa più bassa a cui è stato individuato un angiosarcoma (oltretutto di tipologia non certa ) è quella di 288 ppm pari a circa 28 ppm circa di esposizione giornaliera, si può affermare che alle esposizioni già presenti nella coorte di Porto Marghera nel 1974, e ancora più alle esposizioni degli anni successivi, pacificamente rientranti nei limiti dapprima adottati e in seguito imposti di 3 ppm giornalieri (e anche ampiamente al di sotto degli stessi come documentato dalle rilevazioni dei gascromatografi) non risulta esservi prova di una efficienza lesiva del cvm. In tal senso sarebbero convergenti anche gli studi tossicologici e di oncogenesi che pure individuano un rapporto dose-risposta per il cvm (si ricordano gli esperimenti di Maltoni e gli studi di Weinrauch e di Swemberg secondo cui al di sotto di dosi cumulative di 10 ppm non è stata accertata  una idoneità lesiva del c v m.

 

I consulenti del pubblico ministero relativamente al problema della idoneità lesiva del cvm alle bassi dosi non hanno potuto smentire né i risultati epidemiologici né quelli sperimentali. Si sono limitati ad affermare "che non si può escludere", "che la soglia al di sotto della quale non si sono osservati tumori  non è una soglia effettiva ma una soglia apparente... perché non si possono fare degli studi che dimostrino l'inesistenza di una soglia perché bisogna andare nell'infinitamente piccolo".. (Berrino);  “attualmente una relazione tra esposizione e cancerogenità delle sostanze  genotossiche è troppo confusa per offrire linee guida sulla soglia.... e perciò non vi è possibilità di uscire dall'atteggiamento di essere molto conservativi e sull'esposizione e sul rischio e  quindi accettare che non vi è una dose sicura" ( Terracini); "con questo tipo di modello non riesco a vedere l'effetto alle basse dosi e quindi sulle basse dosi non posso dire assolutamente nulla " (Martines).

Resta il fatto, e questo rileva nel processo penale, dell’assenza di sicura prova. Si osserva infatti che, per quanto concerne gli angiosarcomi e gli epatocarcinomi riscontrati negli autoclavisti nonché i tumori del polmone negli insaccattori e nei solo insaccattori, ammesso che questi ultimi tipi di tumore, a differenza del primo, abbiano significatività statistica oltre che plausibilità biologica, si sono verificati tutti a seguito delle alte esposizioni risalenti agli anni 50 e 60 e prima parte degli anni '70 e cioè a quelle esposizioni elevate antecedenti alla conoscenza della cancerogenità del cvm.

Nessun tumore del fegato e del polmone ha interessato lavoratori della corte di Porto Marghera assunti dopo il 1967 e da tale data oramai è trascorso interamente il periodo di latenza non solo medio ma approssimantesi anche alle punte medio-alte rilevate.

 

Conseguentemente si può trarre una prima incontestabile conclusione:  alla stregua delle analisi epidemiologiche aggiornate l'idoneità lesiva del c v m si è rivelata ad alte o elevatissime dosi  mentre non sussiste la prova di una  efficienza lesiva anche a basse dosi e in particolare a quelle esistenti dal 1974 in poi.

Le incertezze della scienza in proposito o le mere ipotesi o i postulati fondati su preoccupazioni cautelative, seppure possano costituire dei punti di partenza per ulteriori approfondimenti, non apportano nessun dato di conoscenza utilizzabile in ambito  processuale dove ci si deve attenere ai fatti accertati e provati. Da tenere in considerazione dunque le sole esposizioni eziologicamente rilevanti dal punto di vista temporale, traendone tutte le conseguenze sia sotto il profilo della riferibilità delle imputazioni agli imputati tutti tratti  in giudizio, sia sotto il profilo della addebitabilità per colpa degli eventi.

 

Infatti le condotte cui riferire causalmente gli eventi sono antecedenti al 1974 e, quindi, a epoca precedente alla conoscenza della canceroginità del cvm. Mentre per il periodo successivo, non sussistendo la prova di una idoneità lesiva di tale sostanza alle basse dosi successive, immediatamente contenute nei limiti imposti dalle norme cautelari e poco dopo ridotte anche al di sotto degli stessi (e quindi nell'ambito di un rischio consentito nell'attività di impresa), non si ravvisano neppure condotte  cui causalmente riferire e colpevolmente addebitare tali eventi.

 

Invece, si osserva, il PM compie una vera e propria traslazione dei piani temporali perché rappresenta nella imputazione “un quadro del passato” che ci riporta a condizioni lavorative (e a conseguenti addebiti di colpa) che sono quelle proprie degli anni ’50-’60, e propone all’esame dibattimentale tali situazioni come verificatesi nel successivo ampio arco temporale che va dal 1970 al 2000. In tal modo, oltrechè non selezionare, alla stregua delle risultanze epidemiologiche, le patologie correlabili, neppure il PM ha  adottato un criterio selettivo per individuare i soggetti cui fondatamente addebitare gli eventi lesivi : si è scelta invece - come è stato reiteratamente affermato dalle difese - la strategia “della massificazione degli eventi e delle condotte“: indubbiamente “fatto“ di maggior evidenza e impatto verso l’esterno , ma di nessun fondamento in “diritto”. Ma l'accusa ha obbiettato, in diritto, che all'epoca erano vigenti nel nostro ordinamento i DPR n° 547/1955 e n°303/1956- di cui si parlerà più diffusamente nella parte concernente la colpa- che ricomprendevano norme che dovevano considerarsi cautelative rispetto ai rischi che hanno determinato gli eventi.

Ma il Tribunale già osserva che allora si ignorava la pericolosità e la canceroginità sia del gas (cvm) sia delle polveri (pvc) che si diffondevano nell'ambiente di lavoro,  e quindi la rappresentazione e la prevedibità degli eventi poi verificatisi, essendo il solo rischio noto alla metà degli anni 60 la sindrome di Raynaud, evento di tipo tutt’affatto diverso, patologia che determinava disfunzioni alla circolazione delle mani e che  veniva a colpire i lavoratori che per le loro mansioni venivano a diretto contatto con la sostanza nella pulizia delle autoclavi o dei filtri o nell’insacco.

Dunque non appare condividibile l'assunto accusatorio secondo cui quelle norme richiederebbero al datore di lavoro, qualunque sia la nocività, prossima o remota  del fattore inquinante, di mettere in atto ogni strategia possibile  per eliminarlo o neutralizzarlo, assumendosi diversamente  la responsabilità di tutte le conseguenze potenziali derivanti da quella violazione ancorché in quel momento impreviste o imprevedibili.

 

Questa tesi dilata sino alla imputabilità oggettiva il concetto di responsabilità colposa poiché non si fa carico neppure di assumere come elemento essenziale non tanto la prevedibilità dell'evento tipico, ma neppure la rappresentazione dell'evento generico di un grave danno alla vita o alla salute: non si può eludere il problema della conoscenza o conoscibilità della nocività, e ancor più della cancerogenicità della sostanza (e nel caso particolare del cvm) in un determinato momento storico sia in ambito scientifico che in quello industriale secondo il modello del c.d. agente modello.

Ma soprattutto, osserva il Tribunale, ancor meno è legittimo confondere il piano soggettivo con quello oggettivo deducendo dalla inosservanza di quelle norme di cautela generica la attribuibilità dell'evento lesivo "con alta probabilità riconducibile proprio all'inalazione delle polveri o del gas", così ritenendo decisivo per l'accertamento della causalità il solo fatto che la condotta omissiva abbia astrattamente aumentato il rischio del verificarsi dell'evento.

 

 La dottrina e la giurisprudenza prevalenti escludono che nell'ambito dell'accertamento del nesso causale possa farsi ricorso alla teoria dell'aumento del rischio, "non essendo possibili ibride commistioni di elementi di carattere soggettivo" poichè dalla problematica oggettiva del nesso di causalità devono rimanere escluse tutte le questioni afferenti la prevedibilità che attengono propriamente all'elemento psicologico"( Cass 17/12/93-Ianieri-).

 

Ma pur seguendo il P.M. su tale piano ci si dovrebbe interrogare, secondo il Tribunale, su quale sia stata nel 1974 la condotta antidoverosa e quale avrebbe dovuto essere per contro la condotta  corretta che, se posta in essere, avrebbe impedito il verificarsi dell'evento. Secondo l'ipotesi d'accusa i comportamenti antidoverosi sarebbero stati principalmente sia l'omessa fermata degli impianti - o comunque un adeguato e tempestivo intervento sugli stessi per ridurre l'esposizione nociva e cancerogena - sia l'omesso allontanamento dai reparti o dalle lavorazioni a rischio dei lavoratori maggiormente esposti ( in particolare autoclavisti e insaccatori).

 

Ammesso per pura ipotesi che tali condotte omissive si siano verificate pur in presenza della conoscenza del rischio tossico e oncogeno , si tratta di verificare se  avrebbe potuto il comportamento alternativo che si esige evitare il verificarsi dei tumori epatici e polmonari in quei lavoratori che erano stati esposti, come risulta dalle consulenze epidemiologiche e dalle schede personali prodotte nel corso degli esami medico-legali, alle elevate concentrazioni degli anni 50 e 60 . I dati di conoscenza scientifica ci dicono: a) che il cvm è una sostanza che agisce secondo un rapporto dose risposta e che le esposizioni cumulative più elevate sia per quantità sia per durata sono quelle maggiormente responsabili degli effetti oncogeni; b) che secondo il modello carcinogenetico multistadio il cvm sarebbe un cancerogeno iniziante e cioè inducente una mutazione tendenzialmente irreversibile nei primi stadi del processo tumorale ; c ) che il periodo di esposizione lavorativa e di latenza, anche sottratto il periodo di "lag"( che è il periodo intercorrente tra la presumibile epoca della induzione a seguito di esposizione alla sostanza cancerogena e la manifestazione del tumore calcolato in circa 15 anni sulla base della letteratura esistente), sarebbe rispettato per tutti  i lavoratori che hanno contratto i tumori così da poter ragionevolmente ritenere che le esposizioni rilevanti a determinare i tumori siano quelle degli anni  50-60. Ne consegue che all'epoca in cui i comportamenti doverosi erano concretamente esigibili essi non avrebbero potuto evitare gli eventi verificatisi o, se si vuole, non sussiste una prova  dimostrativa avente elevata probabilità che il comportamento alternativo avrebbe impedito o ritardato il verificarsi dei tumori.

 

Ma il Tribunale, ha intrapreso una diversa soluzione della problematica attinente la causalità: tutti i dati di conoscenza introdotti nel presente processo, molteplici e aggiornati, valutati complessivamente, non consentono di ritenere sussistente una associazione causale tra cvm-pvc e tumori diversi dall'angiosarcoma e patologie che non siano la sindrome di Raynaud e l'acrosteolisi nonchè tipiche epatopatie interessanti l'endotelio.

 

A tali fini il Tribunale ritiene di effettuare, con specifico riferimento alla coorte di Porto Marghera, un esame più dettagliato e una valutazione critica dei dati epidemiologici e delle risultanze sperimentali anche di biologia molecolare nonché di approfondire le caratteristiche nosologiche e morfologiche delle neoplasie alla luce dei contributi  dei consulenti medico-legali e anatomo patologi. E conclude ritenendo non individuati fattori di rischio professionale, né ipotizzabile un ruolo concausale dell’esposizione lavorativa proprio perché non provata la causalità del fattore professionale, per i tumori del laringe, del sistema linfatico e omopoietico, del cervello, per i melanomi, ma anche per i tumori del polmone, e, quanto al fegato, per l’epatocarcinoma.

Circa il tumore al polmone il tribunale ha ritenuto non sussistere l'evidenza epidemiologica e neppure la plausibilità biologica e ha accertato perdipiù la presenza in 11 dei 12 casi di un rilevante fattore di rischio extraprofessionale per elevato tabagismo.

Con riferimento all’epatocarcinoma, il Tribunale, pur prendendo atto dei risultati degli studi epidemiologici che individuano eccessi statisticamente significativi esclusivamente nei lavoratori alto esposti che hanno svolto mansioni di autoclavisti, e pur prendendo atto anche dei risultati degli studi sperimentali citati e altresì delle osservazioni cliniche e istologiche sui casi in letteratura dibattuti che individuirebbero carcinomi epatocellulari in esposti a c v m, ritiene che non possa dirsi raggiunta la prova dell'attribuzione causale di tale tumore all'esposizione al c v m.

 

E ciò, non solo perché gli studi epidemiologici riguardano ancora un piccolo numero di persone sia nella corte europea (10 soggetti ) sia in quella di Porto Marghera (4 autoclavisti) con problematiche ancora aperte sulla precisione della stima e con andamenti di rischio non particolarmente elevati se si tiene conto della eziologia variegata e dell’alta incidenza dei plurimi fattori di rischio, ma soprattutto perché in tutti i casi esaminati mediante indagine autoptica e discussi in dibattimento non sono state evidenziate le tipiche lesioni indotte dal c v m, e per contro sono state invece individuate le lesioni riferibili ad accertati fattori noti di induzione di tale tumore presenti in tutti i casi di Porto Marghera (epatiti virali b e c, elevato consumo di alcol, cirrosi) che proponevano giustificate soluzioni alternative.

 

Alla logica della falsificazione si sono richiamati gli stessi consulenti dell’accusa, allorquando hanno affrontato il problema se sia possibile pervenire dal dato epidemiologico a livello di popolazione a quello individuale, e la risposta è stata cautamente affermativa, ma ristretta sostanzialmente ai casi in cui  non si è in grado di fornire una spiegazione alternativa, cioè solo se si è in grado di affermare che il singolo soggetto esposto a cvm non era esposto ad altro fattore eziologico che giustifichi la insorgenza della patologia indipendentemente dal cvm.

 

Analogamente si ritiene non provato il nesso causale per la cirrosi, osservandosi che tutti i casi di cirrosi osservati nella casistica di Porto Marghera per i quali era disponibile l'istologia hanno mostrato evidenza di processi necroinfiammatori e in tutti i casi l'esame istologico ha consentito anche di identificare l'agente eziologico coincidente con uno dei noti fattori di rischio (infezione virale b o c, consumo di alcool).

Proprio la presenza di tali fattori di rischio ha indotto i consulenti del pubblico ministero  a ipotizzare comunque solo un ruolo concausale del c v m. Ma, osserva il Tribunale, l'esame istologico non ha evidenziato in nessun caso di cirrosi lesioni tipiche  dell'esposizione a c v m: in particolare nei casi riguardanti i lavoratori Zecchinato e Simonetto che, secondo i consulenti del PM, avrebbero sviluppato in sequenza prima cirrosi e successivamente angiosarcoma epatico, così da avvalorare la associazione tra tale malattia epatica e esposizione a c v m , tale processo patologico non ha trovato conferma. Infatti, l' esame istologico di Zecchinato dimostra fibrosi epatica congenita e angiosarcoma ma non evidenza di cirrosi e quello di Simonetto dimostra epatocarcinoma in cirrosi con emocromatosi e non angiosarcoma: nel primo caso la cirrosi è esclusa, nel secondo caso la cirrosi ha origine in una malattia metabolica congenita e evolve in epatocarcinoma.

Analoghe, ancora, le conclusioni per le epatopatie non caratterizzate da tipiche lesioni da cvm, relativamente alle quali la letteratura esaminata evidenzia associazione non già all’esposizione a cvm, bensì a consumo alcoloico o a epatiti virali.

 

In conclusione, osserva il Tribunale che all’osservazione epidemiologica gli eccessi significativi che hanno evidenziato un associazione forte riguardano i tumori epatici, angiosarcoma e epatocarcinoma, e quindi il fegato appare come l’unico organo bersaglio del cvm. Entrambe tali neoplasie hanno interessato lavoratori esposti ad elevate concentrazioni di cvm, risalenti tutte agli anni ’50-’60, perlopiù svolgenti le mansioni di addetti alle autoclavi. Precisa tuttavia che le evidenze epidemiologiche presentano differenze di rilievo per la diversa incidenza dei due tumori e per la presenza di una variegata molteplicità di fattori confondenti che legittimano spiegazioni alternative per l’ epatocarcinoma, rispetto a cui le analisi stratificate che mettono in rilievo una relazione dose risposta sono ancora non persuasive e abbisognano di conferme per soddisfare il criterio di riproducibilità del dato.

 

Altresì per quest’ultimo si pone un problema di plausibilità biologica inquantochè non è noto neppure a grandi linee il meccanismo di induzione di tale tumore, che interessa le cellule epiteliali, da parte del cvm che, invece, tipicamente viene a colpire le cellule endoteliali : si dovrebbe dare una spiegazione plausibile della circostanza che una medesima sostanza produce neoplasie nettamente diverse sul piano morfologico ancorché interessanti lo stesso organo. Spiegazione scientifica che non è stata offerta neppure a livello sperimentale.

 

Eguali considerazioni merita l’ipotesi del cvm come fattore concausale che interverrebbe cioè a interagire con i noti fattori di rischio (alcool, epatite b e c, cirrosi): lo stato delle conoscenze  non consente di pervenire a nessuna conclusione in ordine alla sussistenza di tali meccanismi sinergici.

Il ricorso alla concausalità non può essere neppure un espediente per sfuggire alla prova della efficienza causale esclusiva  del fattore professionale posto che il nostro ordinamento (art 41 c p) non autorizza l’assunzione di un “modello debole “di causalità e lo statuto epistemologico della concausa impone che anch’essa trovi adeguata spiegazione in leggi di copertura. 

Pertanto trovano spiegazione causale con riferimento alle elevate esposizioni a cvm  solo gli angiosarcomi  (otto) e, tra le patologie non neoplastiche, le epatopatie caratterizzate dalle tipiche lesioni da cvm (cinque) e, infine, le sindromi di Raynaud e/o acrosteolisi (dieci).

 

Tanto ritenuto in ordine alla problematica del rapporto eziologico tra esposizione a cvm e a polveri di PVC ed eventi contestati, si addentra poi il Tribunale nella disamina degli impianti e sistemi di lavorazione del cvm, PVC e DCE in Porto Marghera ponendoli in relazione alle conoscenze sulla tossicità e canceroginità di dette tali sostanze, procedendo quindi alla valutazione delle condotte contestate, per verificarne la sussistenza in relazione altresì agli specifici addebiti contravvenzionali, e per desumerne o meno la configurabilità della colpa nell’analisi altresì delle singole e specifiche posizioni degli imputati.

 

In diritto, peraltro, previamente esclude la configurabilità nel nostro ordinamento del contestato delitto di strage colposa secondo l’accusa da ritenersi punita "dall'articolo 449 in riferimento all' articolo 422 c p". Ricordato che appunto secondo l’accusa, sulla scia di parte della dottrina, l’accento andrebbe posto sull’articolo 449 cp che consentirebbe di ricostruire un autonoma fattispecie aperta di disastro innominato che si riempie via via di contenuto attraverso il rinvio che tale norma fa ai disastri nominati di cui al capo primo e alle altre figure di disastro indicate nel capoverso dell'articolo 449 cp, ritiene invece il Tribunale di seguire il diverso orientamento che esclude la sussistenza della strage colposa. Si osserva infatti, richiamandosi al riguardo le ritenute fondate critiche della difesa, che il dato testuale dell'articolo 449 c p, nell'incriminare la causazione colposa di un incendio (articolo 423 c p) o di altro disastro preveduto dal capo primo del titolo sesto, ha operato un richiamo selettivo ad alcune, e non a tutte le figure di cui al capo primo, individuandone una specificamente (l'incendio) e le altre con la denominazione di genere " disastro". Ha individuato nominativamente l'incendio perché la norma regolatrice di tale fattispecie è la prima nella successione delle norme relative ai "disastri" e costituisce anche il limite iniziale della serie delle disposizioni richiamate.

 

Ritiene invece il Tribunale corretta la prospettata configurabilità del delitto di disastro innominato colposo, disattendendo, quanto a tale reato, le critiche della difesa. Premesso che in punto di fatto il pubblico ministero, come ha chiarito anche nel corso della sua requisitoria, è ricorso a tale fattispecie per utilizzarla come "trait d'union" tra i due capi di imputazione e, anzi, per configurare un unico disastro in quanto " l'attività di industria e di impresa ha esplicato i suoi negativi influssi ed effetti sia all'interno che all'esterno della fabbrica " e cioè provocando lesioni personali e morte ai lavoratori esposti alla sostanza oncogena e altresì determinando un grave inquinamento dei sedimenti e delle acque nei canali industriali e nelle acque di falda sottostanti le discariche con tutte le conseguenze che ne sono derivate anche alla ittiofauna, si è infatti rilevato dalla difesa che, riferendo il disastro anche ad eventi interni allo stabilimento, riuscirebbe difficile tracciare il limite rispetto al disastro correlato all'articolo 437 comma secondo c p e che, inoltre, richiamando l'inquinamento delle falde e dell'ittiofauna vi sarebbe una sovrapposizione rispetto  ai contestati reati di avvelenamento e di adulterazione colposa di acque e di sostanze alimentari, e si è sostenuto che ad integrare la fattispecie non è sufficiente un qualsiasi pericolo, ma esclusivamente un pericolo che deriva da una atto diretto a cagionare un disastro (comma primo) o integrato dalla verificazione dell'evento disastroso (comma secondo).

 

Ma ritiene il Tribunale che una siffatta ricostruzione della fattispecie non sia condividibile laddove nel reato di disastro innominato si ritengano, quali elementi necessari alla sua definizione, una sia pure relativa contestualità degli eventi e la loro determinazione da causa violenta. Elementi, questi, specificativi e non costitutivi, tali essendo invece la gravità e la diffusività degli eventi nell'ambito di una comunità estesa, così da essere idonei a concretamente porre in pericolo la pubblica incolumità, eventi determinati da condotte anche protratte nel tempo che hanno, ciascuna con efficienza causale, realizzato con attività predisponente o aggravante la situazione di rischio. L’evento può verificarsi solo quando si siano determinate un complesso di condizioni: in tal caso è irrilevante verificare se i fattori causali di quel complesso di apporti sia prossimo, remoto o concomitante rispetto alla verificazione dell'evento poiché anche in tal caso ricorre il principio di equivalenza delle cause diacronicamente succedutesi ( art.41cp).

 

E nel caso che ci occupa il rischio costituito dall'esposizione a cvm ha causato gli otto angiosarcomi contestati , le cinque epatopatie ad essa correlabili, le dieci sindromi di Raynaud/acrosteolisi, in tal modo dimostrando di avere idoneità lesiva dell'integrità fisica e di avere efficienza diffusiva nell'ambito della comunità dei lavoratori esposti alle alte dosi di tale sostanza e addetti alle mansioni più a rischio. Idoneità lesiva venuta meno con la drastica riduzione delle esposizioni sin dal 1974.

Il Tribunale esclude infatti completamente la configurabilità dei delitti contestati in relazione alle condotte successive al 1973, osservandosi che, per come emerso dall’istruttoria dibattimentale, l’accertata drastica riduzione delle esposizioni a partire appunto dal 1974, avrebbe fatto venir meno l’idoneità lesiva della sostanza ed ogni situazione di rischio per l’incolumità pubblica. A sostegno di tale conclusione il Tribunale si dilunga nell’analisi delle risultanze processuali in relazione alle conoscenze sulla tossicità e canceroginità del cvm, ai processi produttivi nei singoli reparti, agli interventi di manutenzione e di modifica degli impianti, volti a limitare le esposizioni dei lavoratori, alle misure di prevenzione personale predisposte, in particolare per la tutela degli insaccatori ed autoclavisti.

 

Ne consegue che il predetto reato si ritiene causalmente riferibile a quegli imputati che ricoprivano nell'epoca in considerazione (1969-1973) posizioni di garanzia e, in tale ambito temporale rimane circoscritto, perché per il periodo successivo viene meno anche l'efficienza causale della sostanza e, quindi, la situazione di rischio.

Peraltro la riferibilità causale di tale reato, così come dei reati di omicidio e di lesioni colpose per gli angiosarcomi e per le epatopatie correlate, agli imputati che nell'epoca considerata, ricoprendo posizioni di garanzia, avevano la gestione del rischio relativo all'esposizione alla sostanza tossica e oncogena, non è accompagnata anche dalla imputabilità degli eventi a titolo di colpa (tranne che per i reati di lesioni colpose per i casi di Raynaud in ordine ai quali il proscioglimento degli imputati specificamente interessati in relazione al predetto periodo di causazione, consegue alla prescrizione).

 

Il principio ispiratore, quanto appunto alla componente psicologica del reato, è che nei delitti colposi, la prevedibilità dell’evento deve essere riconosciuta, in particolare per quanto riguarda l’esercizio di attività pericolose, sulla base del criterio della migliore scienza ed esperienza presenti in un determinato settore ed in un preciso momento storico, costituito dall’epoca in cui viene iniziata la condotta. La prevedibilità dell’evento può essere affermata solo quando sussistano leggi scientifiche di copertura, le quali permettano di stabilire che da una certa condotta possono conseguire determinati effetti. La responsabilità dell’imputato può essere affermata solo quando l’evento verificatosi sia riconducibile al tipo di evento che la regola cautelare intende prevenire.

 

E nella specie, all'epoca non era noto sulla base di esaurienti conoscenze scientifiche fondate su affidabili verifiche sperimentali il rischio oncogeno sull'uomo (angiosarcomi), e le lesioni epatiche indotte da cvm non avevano manifestato segni patologici inequivoci, anche perché, quando sono stati rilevati segni di sofferenza epatica, i lavoratori sono stati allontanati dall'esposizione, in tal modo osservando l'obbligo precauzionale di una adeguata sorveglianza sanitaria.

 

Obbligo non osservato, invece , relativamente ai casi accertati di Raynaud/acrosteolisi , trattandosi di patologia nota sin dalla metà degli anni '60 e regrediente con l'allontanamento dalle alte esposizioni cui era associata e perlopiù riguardante mansioni che implicavano un contatto diretto con la sostanza che doveva essere evitato con idonee misure protettive realizzate tardivamente.

Dunque secondo il Tribunale, nella fattispecie l’impresa, e per essa gli odierni imputati, risulta essersi mossa tempestivamente, sotto il profilo della modifica delle procedure e degli interventi sia immediati che a medio termiune sugli impianti e sulle apparecchiature, non appena il problema della canceroginità del cvm ebbe ad appalesarsi con un consistente fondamento scientifico. Le opere eseguite, comprovate documentalmente e confermate dai testi escussi, avrebbero, a parere del Tribunale, permesso di ottenere in breve termine una drastica riduzione dei precedenti livelli di esposizione, concretamente evidenziata soprattutto a partire dalla seconda metà dell’anno1974 e per tutto l’anno 1975, con successivi netti sviluppi di riduzione nei conseguenti anni 1976-1997 a valori ampiamente ricompresi nei limiti prudenziali e rispettosi delle soglie all’epoca individuate e successivamente stabilite dalla normativa.

 

Si ritiene dunque infondato l’addebito ascritto agli imputati sotto il profilo della responsabilità colposa, sia generica che specifica.

Né tantomeno, ed a maggior ragione, è ipotizzabile l’elemento soggettivo del dolo, integrante l’ipotesi di reato di cui all’art. 437 c.p., pure contestato dal P.M. Sotto quest’ultimo profilo, va rilevato che l’accusa, sotto la qualificazione dell’ipotesi di cui all’art. 437 c.p., ascrive l’omessa collocazione “di sistemi ed apparecchi di sicurezza destinati ed idonei a prevenire l’insorgenza di tumori e di malattie anche gravissime”.

 

Osserva al riguardo il Tribunale che tale tipologia di contestazione non contiene, nella fattispecie concreta, l’indicazione di fatti specifici, in particolare per quanto riguarda la natura degli apparecchi che avrebbero dovuto essere collocati, per cui si deve ritenere che il P.M. abbia fatto riferimento a tutte le asserite violazioni integranti gli addebiti di colpa ascritti.

Peraltro il Tribunale, nell’analisi della suddetta norma, precisa che: la previsione normativa di cui all’art. 437 c.p. configura la più severa sanzione,  predisposta per le violazioni più gravi del dovere di sicurezza, in quanto è caratterizzata sul piano soggettivo dalla necessarietà del dolo e sotto il profilo oggettivo dalla sussistenza di violazioni del dovere di sicurezza aventi particolare serietà;

la fattispecie in  esame non descrive specificamente in quali situazioni sorga il dovere di attivazione, per cui deve ritenersi, secondo i principi generali concernenti la responsabilità per omissione, che la condotta di omessa collocazione possa essere correlata soltanto a quei sistemi o quegli apparecchi la cui collocazione sia obbligatoria sulla base di una specifica norma di prevenzione di disastri o d’infortuni;in sostanza, la previsione di cui all’art. 437 c.p. costituisce una fattispecie avente riguardo non già ad una qualunque violazione del generico dovere di sicurezza, ma soltanto alla violazione dolosa di precise disposizioni della statuizione normativa speciale, che di per sé siano sanzionate come contravvenzioni e che prescrivano specifici doveri di collocazione di impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri od infortuni sul lavoro.

 

Dunque sorgono in considerazione, nella fattispecie, le asserite violazioni di cui ai DPR n. 547/55 e  n. 303/56; sotto il profilo oggettivo, la definizione di “impianti” individua delle installazioni caratterizzate da stabilità, così come il concetto di “apparecchi” qualifica delle attrezzature aventi una certa complessità tecnica, diretta specificamente alla prevenzione summenzionata; del resto, correlativamente, il termine “collocazione” corrisponde ad un’attività avente ad oggetto una cosa dotata di stabilità strutturale; dunque, si possono fondatamente escludere dal novero di tale previsione normativa i dispositivi di protezione individuale, nonché le cautele relative all’adozione di particolari procedure di lavoro o di organizzazione del sistema, in quanto non possiedono i requisiti suindicati. Neppure le parti d’impianto funzionali al ciclo produttivo rientrano nell’ambito dei dispositivi suddetti, poiché indubbiamente la fattispecie di cui all’art. 437 c.p. si riferisce a strumenti aventi specificamente ed unicamente la destinazione  alla sicurezza.

 

E in forza di tali premesse ritiene che: gli addebiti di omesso blocco degli impianti e di omesso risanamento dei medesimi, di mancata manutenzione degli elementi degli impianti più soggetti a deterioramento, di mancata adozione delle misure necessarie a tutelare la salute dei lavoratori, di mancata emissione dei provvedimenti conseguenti alla segnalazione (con la relazione del marzo 1977) dell’Istituto di Medicina del Lavoro, sono tutti al di fuori della previsione normativa succitata, sia per la genericità dell’oggetto, sia per la palese non correlabilità alle nozioni di collocazione di apparecchi specifici con finalità antinfortunistica o comunque di prevenzione; la contestazione d’insufficiente manutenzione degli impianti, con riferimento alla sostituzione degli organi di tenuta (valvole, rubinetti), non concerne ugualmente l’ambito applicativo della norma di cui all’art. 437 c.p. ; infatti, tali organi costituiscono parti degli impianti produttivi normalmente funzionanti e non integrano invece specifici e distinti strumenti con finalità preventiva; gli addebiti di omessa sorveglianza sanitaria, di omessa trasmissione delle informazioni ai dipendenti, di omessa adozione di particolari sistemi di organizzazione del lavoro o di differenti procedure, di omesso controllo dell’uso dei mezzi di sicurezza personale, di omessa separazione delle lavorazioni insalubri, sono ugualmente tutti estranei all’ambito della fattispecie normativa di cui all’art. 437 c.p., sempre per le motivazioni suesposte in ordine alla circostanza che trattasi di addebiti relativi a modalità operative e non già invece integranti strumenti da collocare, destinati specificamente alla funzione di prevenzione ed antinfortunistica.

 

Secondo il Tribunale anche la contestazione di omessa collocazione di adeguati strumenti di monitoraggio non appare rientrare nel novero degli strumenti anzidetti. In ogni caso, anche a ritenere che i gascromatografi possano essere ricompresi tra le apparecchiature summenzionate, si è ampiamente evidenziato che i medesimi sono stati effettivamente collocati nel contesto dei singoli reparti, in termini di certa tempestività e con efficacia sicuramente appropriata a controllare le singole zone di lavoro.

E analogamente inconsistenti, alla luce delle installazioni e delle modifiche impiantistiche adottate con le commesse analiticamete ricordate dal Tribunale, si ritengono gli addebiti relativi alla mancanza di cappe d’aspirazione.

 

Ulteriormente precisa poi il Tribunale che l’infondatezza sul piano oggettivo dell’ipotesi di reato di cui all’art. 437 c.p. trova riscontro sotto il profilo soggettivo, in quanto è del tutto inesistente una consapevole volontà, negli imputati di cui al presente giudizio, di astenersi dal collocare impianti ed apparecchi diretti a neutralizzare la situazione di rischio, precisamente riconosciuta come tale dai medesimi. La consapevolezza della condizione di rischio correlata all’esposizione  degli operatori risulta essere stata invece adeguatamente affrontata dall’impresa, e per essa dagli odierni imputati, mediante l’adozione di tutte le iniziative idonee, sia per quanto riguarda la modifica delle procedure che per quanto concerne l’adozione degli elementi tecnologicamente più avanzati e la modifica e ristrutturazione degli impianti.

In conclusione sarebbe rimasta provato che solo per quanto riguarda gli operatori sui quali è stato riscontrato il fenomeno di Raynaud i valori espositivi erano superiori ai limiti di cui alla normativa vigente, cioè 500 ppm, nell’arco temporale sino al 1974. Trattasi in particolare dei lavoratori autoclavisti e degli operatori all’insacco ed all’essiccamento, sopra specificamente individuati con riferimento all’ipotesi della malattia di Raynaud ed all’acroosteolisi, per i quali indubbiamente è emerso che, fino al momento dell’adozione delle diverse procedure ed alla modifica ed all’aggiornamento degli elementi delle apparecchiature, cioè fino all’epoca decorrente dall’anno 1974, non sono state adottate le misure cautelari idonee ad evitare l’eccessivo contatto diretto tra le mani ed il CVM.

 

Ma sulla scorta di tutte le considerazioni svolte, ribadisce il Tribunale che non può però ravvisarsi alcuna forma di continuità o di correlazione tra le predette patologie e quelle tumorali od epatiche, assolutamente distinte quanto a tipologia e formazione e quindi integranti un tipo di evento diverso e non prevedibile, le quali sono state oggetto di acquisizioni scientifiche sufficienti soltanto a partire all’anno 1974, come evidenziato da tutte le organizzazioni internazionali che si occupavano della sostanza in esame. Del resto, si ricorda, tutte le patologie anzidette, integranti eventi di tipo diverso, trovano origine nelle elevatissime esposizioni degli anni cinquanta e sessanta, le quali rimangono al di fuori della contestazione del P.M. e quindi del presente giudizio.

Conclusivamente quindi il Tribunale individua gli imputati cui riferire i ritenuti fatti-reato solo sotto il profilo causale (angiosarcomi e epatopatie) e talune patologie sia sotto il profilo causale che colposo (Raynaud/ acrosteolisi), lesioni colpose ormai estinte per intervenuta prescrizione, specificando dunque, per tutte le ipotesi di reato ricomprese nel primo capo d’imputazione le conseguenti formule di assoluzione o proscioglimento.

Non si esime infine il Tribunale da valutazione e conclusione di sintesi in ordine all’accusa prospettata, osservando che il processo ha sofferto della fuorviante impostazione accusatoria, un procedere senza distinzioni in cui sono mancate le coordinate spazio temporali necessarie per orientare nella individuazione delle condotte e dei soggetti ai quali fossero imputabili.

 

Si ricorda che nel 1° capo di imputazione si addebitano tumori e malattie (721 patologie – di cui 228 neoplasie-relative a 542 parti offese, ridotte nelle conclusioni a 311 patologie – di cui 164 neoplasie - relative a 263 parti offese) riferite a condotte omissive che si sarebbero estese in uno spazio temporale ininterrotto e non concluso di 30 anni (il PM ha contestato la permanenza in atto).

Addebiti di colpa infondati in fatto e eventi suggestivamente massificati configuranti i reati di disastro colposo e di strage colposa  (inesistente nel nostro ordinamento giuridico) di grande impatto e forza evocativa.

Eventi che, nei limiti in cui siano imputabili all’esposizione a CVM-PVC, devono essere ricollocati nel loro tempo reale, un "quadro del passato" che ci  riporta alle condizioni di lavoro incidenti sullo stato di salute dei lavoratori che sono quelle degli anni ‘50 – ‘60 e non  alla fase temporale successiva (1969-2000) che è stata proposta all'esame dibattimentale.

 

Questa sfasatura temporale, secondo il Tribunale, ha percorso tutto il processo e ne ha determinato gli esiti: perché era reale la rappresentazione dei fatti se riferita al tempo passato e, invece, inattuale e contraria al vero se riferita agli anni successivi.

Dunque necessaria una contestualizzazione storica per uscire dalla confusione e dalla sovrapposizione dei piani temporali.

Ricorda al riguardo il Tribunale che allorquando nei primi anni ‘50 presso il petrolchimico di Porto Marghera iniziò la produzione del cloruro di vinile e del polivinile  le condizioni di lavoro erano estremamente pesanti, usuranti e nocive e non subiranno cambiamenti fino alla fine degli anni ‘60, primi anni '70.

 

Da tale periodo iniziano a determinarsi alcuni non irrilevanti mutamenti sulla scorta delle rivendicazioni sindacali e della presa di coscienza dei diritti degli operai.

Vi concorrono le prime conoscenze sulla sospetta cancerogenità del c v m che gli esperimenti sugli animali portati avanti da Maltoni evidenziano.

La definitiva conferma, nel gennaio 1974, della cancerogenità della sostanza determinerà una accelerazione degli interventi sulle procedure di esercizio degli impianti di polimerizzazione, sugli interventi di manutenzione e sulle modificazioni ai processi e agli impianti.

L’incalzare del sindacato, da un lato, la responsabile disponibilità della controparte, dall’altro,  progressivamente e in uno spazio temporale relativamente breve,  ridurranno le esposizioni drasticamente: dai 500 ppm (e oltre) degli anni '50 '60 e dai 200 ppm dei primi anni '70  si passerà rapidamente a esposizioni di 25 ppm e già nel 1975 oscillanti tra 5 e 3 ppm, per portarsi poi negli anni successivi al di sotto di 1 ppm.

 

A esposizioni, cioè, non solo consentite sulla base del parametro di 50 ppm provvisoriamente raccomandato nell'aprile del 1974 dal Ministero della Sanità (che è quello stesso fissato in Germania  e nel Regno Unito), ma ampiamente al di sotto dei nuovi parametri allorquando la normativa di recepimento della direttiva CEE fisserà con DPR n° 962 del 1982 il limite di 3 ppm come esposizione media di lungo periodo.

Nei reparti di polimerizzazione, e quindi in quelli con i valori di esposizione più elevati e maggiormente a rischio (CV6, CV16, CV14, CV24), nel periodo intercorrente tra l'aprile del 1974 e la fine del 1975 sono state eseguite 5351 determinazioni mediante "pipettone": i valori medi mensili di concentrazione del c v m sono inferiori a 50 ppm in tutti i periodi di tale arco temporale e tendono a una progressiva diminuzione tanto da raggiungere nei primi mesi del 1975 valori medi inferiori a 5 ppm.

I valori espressi dalle rilevazioni dei gascromatografi entrati in funzione nel marzo 1975 vengono confrontati anche con i campionatori personali indossati su turni di 8 ore di operai dedicati a varie mansioni di lavoro e la correlazione è confermata : negli anni 1976-1977 il 75% delle determinazioni è risultato inferiore a 1 ppm, il 14% è risultato compreso fra 1 e 2 ppm, il 5% compreso fra 2 e 3 ppm, il 4% compreso fra 3 e 5 ppm e lo 0, 7% superiore a 5 ppm. A novembre del 1975 i valori medi mensili sono inferiori a 1 ppm.

Tale crollo delle esposizioni fu la conseguenza incontestabile di modifiche delle procedure, di interventi sugli impianti, documentata in atti e confermata dalle prove testimoniali.

Dunque, i tumori e le patologie che il pubblico ministero ha ritenuto riferibili all'esposizione al cvm sono tutti, pacificamente e incontrovertibilmente, come hanno detto unanimamente i consulenti della accusa e della difesa, attribuibili alle condizioni di lavoro e alle alte esposizioni degli anni '50 -'60.

 

Questa è l'epoca in cui sicuramente si ignorava la oncogenità del c v m: in tutti paesi in cui si produceva questa sostanza, in tutti gli stabilimenti in cui si sono compiuti i numerosi e approfonditi studi epidemiologici, aggiornati fino ai tempi nostri, la produzione del polivinile è avvenuta nelle medesime condizioni lavorative, con gli stessi elevati livelli di esposizione e con gli stessi sistemi produttivi  esistenti a quell'epoca a Marghera.

Per propria scelta quindi il pubblico ministero non ha agito nei confronti degli amministratori e dei dirigenti di quell'epoca perchè ha ritenuto che gli eventi verificatisi non potevano essere loro addebitati per mancanza di colpa derivante dall'ignoranza degli effetti oncogeni. Il pubblico ministero ha deciso invece di agire nei confronti dei loro successori.

Per portare comunque a compimento il suo proposito il PM è stato costretto a trasferire l’epoca della causalità a quella della colpa: ha collocato cioè la causa degli eventi, risalenti alla prima era degli anni '50 '60,  nella seconda era degli anni '70-2000 allorquando "si sapeva”, muovendosi su tre direttrici.

 

La prima tende, nei limiti in cui è possibile, a sovrapporre la prima e la seconda "era": la conoscenza della oncogenità del c v m è fatta risalire al 1969, e cioè ai primi esperimenti del dottor Viola che individua sui ratti esposti ad elevatissime concentrazioni di c v m (30 mila ppm) dei tumori sottocutanei, ancorchè tali esperimenti siano stati ritenuti non significativi e non estrapolabili da animale a uomo oltre che dalla comunità scientifica anche dallo stesso autore.

Si pretende cioè dal PM un adeguamento immediato ai risultati degli esperimenti di Viola comunicati nel 1970, ancorché lo stesso autore sia cauto sul significato degli stessi e ritenga sia necessario un  loro approfondimento.

Tutta la comunità scientifica e gli organismi internazionali (OMS) rimasero in attesa di conferme e di sviluppi della ricerca che era impostata su modelli sperimentali ritenuti inadeguati (alte concentrazioni, numero e specie di animali insufficiente..) e comunque non estrapolabili dall’animale all’uomo.

 

E’ stata Montedison ad assumere la tempestiva  iniziativa di uno studio basato su modelli sperimentali che saranno unanimamente apprezzati, incaricando sul finire del 1970 il professor  Maltoni di condurre un esperimento secondo metodologie adeguate, "meno pionieristiche", che produrrà i primi risultati, individuando i primi angiosarcomi al fegato in ratti, topi, criceti nel 1972, risultati che l’oncologo comunicherà al committente nel novembre e, ancorché parziali, alla comunità scientifica già nell’aprile dell'anno successivo.

 

Suggestivamente il PM insinua, ma non prova, che le industrie sapessero e che avessero sino allora taciuto perchè avvinte da un patto di segretezza svelato dalle prime morti per angiosarcoma accertate su tre lavoratori della società americana Goodrich nel gennaio del 74. In proposito anche il consulente dell'accusa prof. Carnevale, che pure si è occupato di complotti dell'industria, ha affermato che vi furono sospetti, ma che nulla risulta in letteratura. Sotto il profilo più propriamente probatorio, dagli atti acquisiti nel corso della rogatoria negli USA effettuata dal PM è emerso piuttosto che le industrie europee e americane si vincolarono ad un patto di riservatezza sino alla conclusione degli esperimenti di Maltoni con il proposito di garantirsi da fughe di notizie e strumentalizzazioni che potessero avvantaggiare gli uni e pregiudicare gli altri, patto che non ebbe alcuna esecuzione per le perplessità delle industrie americane e per le notizie preoccupanti sui primi risultati sperimentali comunicati da Maltoni.

Gli esperimenti di Viola possono essere considerati un campanello d’allarme sulla possibile oncogenità della sostanza e sono stati assunti da Montedison, cui si sono associate le altre industrie europee, come un impegno ad approfondire gli studi sperimentali per fare chiarezza e per pervenire a risultati probanti ai fini di adottare le conseguenti decisioni.

Ma nel frattempo Montedison non rimase inerte perché avviò commesse ed eseguì interventi già nel 1973 che riducevano l’esposizione negli impianti di polimerizzazione (il degasaggio e lo scarico delle autoclavi, la loro bonifica e  pulizia).

 

E successivamente, come si è detto, quando la cancerogenità fu confermata sull’uomo dai casi di angiosarcoma su tre lavoratori della industria statunitense Goodrich accertati nel gennaio 1974, intraprese quelle modifiche agli impianti, cui si è fatto diffusamente riferimento nella parte motiva, che ridussero drasticamente le esposizioni ai fini di prevenire tali eventi avversi.

Nel corso degli anni successivi l’attività di risanamento ha intrapreso ulteriori iniziative da cui è  conseguito il raggiungimento di valori ampiamente al di sotto della soglia stabilita.

Il pubblico ministero intraprende la seconda direttrice.

 

Contesta l'affidabilità delle misurazioni da parte dei gascromatografi installati nei vari reparti : ma la comparazione con i rilevamenti effettuati con “i pipettoni” e con i campionatori personali smentiscono tale assunto perché viene evidenziata una situazione espositiva sostanzialmente corrispondente con diversi sistemi di rilevazione. Anche gli accertamenti effettuati dal consulente dell’accusa privata su pretese violazioni di procedure nell’esercizio dei gascromatografi  risultano del tutto inidonei a infirmare la validità e la correttezza del loro funzionamento e, comunque, anche a voler ammettere l’esattezza dei rilievi, le divergenze cui si perviene sono del tutto trascurabili.

 

Contesta ancor più radicalmente il PM l’introduzione nel 1975 di un sistema di monitoraggio sequenziale multiterminale che determinerebbe una diluizione delle concentrazioni. Ma tale sistema è conforme alla direttiva CEE e al DPR n° 962/1982, è stato quello prescelto anche dalla componente maggioritaria del sindacato, perché più idoneo a rilevare l’effettiva esposizione dei lavoratori nelle zone di lavoro: comunque dai raffronti eseguiti nei reparti CV6,CV14,CV16 è risultato che i valori medi ottenuti dal sistema monoterminale erano sovrapponibili a quelli acquisiti col sistema pluriterminale.

La pubblica accusa nell’intento di infirmare i valori espositivi, ampiamente al di sotto di quelli stabiliti dalla normativa, intraprende la terza direttrice e si attesta su una posizione di assoluta intransigenza, negando che vi possa essere una qualsivoglia soglia di sicurezza per gli oncogeni : "non si può escludere". Si tratta di una posizione cautelativa condivisibile sotto l'aspetto sociale, ma la valutazione del legislatore è stata diversa perché non ha vietato la produzione del cvm, ma ha semplicemente imposto dei limiti di esposizione che ritiene possano essere cautelativi rispetto al rischio oncogeno.

 

Gli studi tossicologici e di oncogenesi ampiamente esaminati e discussi nella parte motiva sono convergenti, secondo il Tribunale, nell’individuare un rapporto dose-risposta per il c v m, individuando una dose cumulativa di non effetto a 10 ppm (Maltoni, Weinrauch, Swemberg).

Ricorda d’altra parte il Tribunale come gli studi epidemiologici hanno individuato un caso di angiosarcoma ad una esposizione cumulativa per dieci anni di 288 ppm, la più bassa che ha provocato tale tumore, equivalente a 25 - 28 ppm di esposizione cumulativa annua.

E che l'osservazione ha messo in evidenza che nessun angiosarcoma del fegato si è manifestato in lavoratori assunti successivamente al 1973 nella coorte europea e successivamente al 1967 nella coorte statunitense e in quella di Porto Marghera. Ed ancora si ricorda il recente studio (Rozman e Storm-1997-) con il quale viene confermato che " fino all'ottobre del 1993 nessun nuovo caso di angiosarcoma epatico fu riportato dal registro internazionale fra i più di 80 mila lavoratori degli Stati Uniti che erano stati esposti per la prima volta al cloruro di vinile a partire dal 1968, traendone la conseguenza che la riduzione dell'esposizione entro il range di 0,5- 5 ppm sembra essere stata sino ad ora adeguatamente protettiva".

 

Si osserva infine che il principio di precauzione è divenuto patrimonio della cultura scientifica, industriale e legislativa solo in tempi recenti e per quanto riguarda il CVM la sua produzione iniziale del cvm, risalente agli anni 30, non fu sottoposta a sperimentazioni precauzionali se non per quanto riguarda il rischio di esplosione e fu usato negli spray e come anestetico fino ai primi anni '70. Solo, dopo la scoperta della sua oncogenità e purtroppo delle morti causate, i numerosi studi sperimentali e epidemiologici hanno dato delle indicazioni in base alle quali il legislatore ha posto dei limiti cautelativi che appaiono adeguatamente protettivi.

 

E se tali limiti sono rispettati (si intende i limiti cumulativi medi e non gli sforamenti occasionali che pur possono tutt'ora esserci per disfunzioni o per "incidenti rilevanti" in occasione dei quali vengono tuttavie attivate le procedure di emergenza) e se sinora non si sono verificati effetti avversi nonostante che sia trascorso un periodo temporale che oltrepassa il periodo medio di latenza dei tumori indotti, che è di 28-30 anni, l’ultimo fronte su cui si attesta  il pubblico ministero -secondo cui "nessuna dose è sicura"- non ha nessuna valenza giuridica e nessun fondamento in fatto.  Così come infondata si sarebbe dimostrata la tesi dell'effetto sinergico anche a basse dosi tra c v m, alcol ed epatiti virali b e c.  Si ricorda ancora, infatti, che in presenza di tali fattori di rischio, che da soli possono offrire una spiegazione causale o alla patologia o alla neoplasia (in particolare alle epatopatie, alle cirrosi, all'epatocarcinoma), il supposto contributo del cvm non ha trovato convincenti conferme nelle ricerche sperimentali.

 

Queste le ragioni in base alle quali il tribunale ha ritenuto di non poter accogliere l'impostazione accusatoria che contesta i reati in oggetto a 31 amministratori e dirigenti che avevano governato e gestito il petrolchimico per trent'anni ai più alti livelli, ognuno accusato di essere consapevole della responsabilità del predecessore, ognuno partecipe  del medesimo disegno criminoso, tutti responsabili dei medesimi addebiti di colpa come se la situazione all'interno dello stabilimento fosse rimasta immodificata non solo negli ultimi trent'anni, ma fosse rimasta quella degli anni ’50-’60.

 

Conclude infine il Tribunale ribadendo ancora che in questa traslazione dei piani temporali si annida il vizio d’origine della imputazione, in un quadro del passato riportato al presente, in una artificiosa forzatura che non consente di individuare negli imputati condotti a giudizio i responsabili di eventi che hanno la loro causa  in un'altra epoca, cui si accompagna la rappresentazione di un quadro accusatorio che risente dell’enfasi della formulazione “a grappolo” delle fattispecie di reato in cui è inserito un ingiustificato accumulo di eventi.

Avverso tale sentenza proponeva appello il P.M., nonché, ex art. 576 cpp, le costituite Parti Civili.

In particolare, il P.M. proponeva impugnazione e chiedeva la riforma della sentenza relativamente alla intestazione dell’imputazione, nonché relativamente a tutti i punti del dispositivo che fanno riferimento al primo e al secondo capo d' imputazione  e per tutte le fattispecie di reato contestate agli imputati (fatta eccezione per quella di cui agli art. 422-449 c.p.) risultanti sia dal decreto di rinvio a giudizio, sia dalle contestazioni ex art. 517c.p.p. di cui alle udienze dell' 8 luglio 1998 e del 13 dicembre 2000.

 

Il P.M. chiede, quindi, che venga dichiarata la penale  responsabilità di tutti gli imputati in ordine ai reati e per i periodi di competenza rispettivamente loro contestati fin dall’udienza preliminare, nonchè  che i medesimi vengano condannati alla pena della reclusione specificatamente per ognuno di essi richiesta all'esito della requisitoria di primo grado.

Non viene presentato appello relativamente al terzo capo d’accusa (parte C), perché il reato è ormai prescritto, e in relazione all’ipotesi di reato di cui agli artt. 422-429 (rectius 449) c.p., affermandosi essere ipotesi del tutto residuale.

Sostanzialmente e sinteticamente, i motivi che determinano l’appello  per entrambi i capi d’imputazione (A e B) vengono enunciati nei seguenti:

- omessa lettura ed omessa considerazione di tutto il materiale probatorio fornito da Pubblico Ministero e dalle parti civili;

- omissione dei fatti, storici e processuali, indicati dal Pubblico Ministero e dalle parti civili, a sostegno delle proprie rispettive richieste finali;

- travisamento dei fatti;

- omessa considerazione di tutti i fatti e i dati riferiti dai consulenti tecnici del P.M. e delle parti civili;

- travisamento ed errata interpretazione delle valutazioni di cui consulenti tecnici del P.M. e delle parti civili.

- incompletezza e contraddittorietà della motivazione;- omessa considerazione e omessa applicazione di norme di legge, poste a tutela sia dei lavoratori che dell’ambiente, norme di legge vigenti da decenni rispetto all’epoca (1974) considerata dal Tribunale come rilevante in questo processo;

- errata interpretazione delle norme del codice penale e delle leggi speciali penali contestate agli imputati; errata interpretazione ed errata applicazione delle norme processuali penali relative al rigetto di richieste istruttorie dibattimentali sia del P.M. che delle parti civili.

 

Si lamenta quindi preliminarmente la NON CORRETTA INTESTAZIONE DELLA SENTENZA e l’ERRONEA RICOSTRUZIONE DELLE ACCUSE DEL P.M. evidenziandosi che il Tribunale ha omesso di riportare l'integrale capo d'accusa, e in particolare, ha omesso di riportare le contestazioni formulate ex art. 517 c.p.p. nel corso delle udienze dibattimentali dell’ 8 luglio 1998 e del 13 dicembre 2000.

 

Già per tale motivo, si chiede innanzitutto una riforma totale della sentenza di primo grado.

Quanto al merito, relativamente al primo capo d’imputazione, esordisce il P.M. con la disamina delle ACCUSE DI CUI AGLI ARTT. 437-589-590 C.P., lamentando superficiale ed erronea valutazione da parte del Tribunale, osservandosi che  in più punti della motivazione, ma in particolare alle pagine 462 e 463, la sentenza riconosce per " l'arco temporale fino al 1974 "che i livelli di esposizione al CVM per autoclavisti, insaccatori ed  essiccatori erano " nettamente superiori " ai limiti della normativa vigente, che il fenomeno di RAYNAUD e l’acroosteolisi riscontrati e confermati anche dal Tribunale in queste categorie di operai erano dovuti al loro lavoro, per il quale fino al 1974 " non sono state adottate le misure cautelari idonee ".

 

In conclusione, riconosciuto il nesso causale, il Tribunale -a causa dell'eccessivo decorso del tempo- dichiarava la prescrizione per le lesioni colpose in questione e, contrariamente a quanto ci si poteva e doveva attendere, dichiarava insussistente il reato di cui all'articolo 437 (omissione dolosa di misure cautelari), limitandosi a precisare "per condotte tenute in un'epoca successiva al 1973 ".

Il Tribunale si sarebbe dunque dimenticato del periodo precedente -che di dice sicuramente contestato dal Pubblico Ministero- mentre altrettanto sicuramente, stando alle sue stesse motivazioni, il Tribunale avrebbe dovuto dichiarare per l'articolo 437 c.p. la penale responsabilità quanto meno degli imputati per i quali lo stesso Tribunale aveva dichiarato la prescrizione del reato di lesioni colpose (CEFIS, BARTALINI, CALVI, GRANDI, GATTI, D’ARMINIO MONFORTE e SEBASTIANI), anche perché l'ultimo fenomeno RAYNAUD riconosciuto e ammesso dal Tribunale ( quello di Gabriele BORTOLOZZO) era stato diagnosticato nel 1995 e, quindi, non era prescritto (neanche come lesione) il 2 novembre 2001 (come, peraltro, non erano prescritte le lesioni diagnosticate dopo il 1995 per Terrin Ferruccio e per Guerrin Pietro, posizioni che il Tribunale non ha nemmeno considerato, pur trattandosi di parti civili ancora costituite).

 

Ciò già imporrebbe la modifica della sentenza di primo grado e del dispositivo "in parte qua". Ma comunque, secondo l’appellante, relativamente all'accusa di cui all'art. 437 codice penale, nella sentenza si rinvengono ulteriori e più ampi vizi, in fatto e in diritto, per i motivi che seguono, che hanno attinenza sia alla interpretazione giuridica delle norme, sia alle contestazioni specifiche risultanti dal primo capo d'imputazione, sia agli studi e alle conoscenze  storiche  sulla tossicità e sulla cancerogenicità del CVM, sia alle proprietà nocive, tossiche e cancerogene del CVM e del PVC.

Si sostiene, in particolare, che il Tribunale ha gravemente errato nella scelta di affidarsi totalmente ed esclusivamente alle dichiarazioni dei consulenti tecnici degli imputati, omettendo di esaminare e di valutare tutto il materiale probatorio acquisito, che riguarda:

- le conoscenze storiche sulla tossicità del CVM (che si dice risalire alla fine degli anni quaranta e non ai primi anni settanta);

- i particolari organi colpiti dal CVM .

Si aggiunge altresì che, altrettanto inspiegabilmente,  il Tribunale ha negato l'esistenza e comunque l'applicazione di norme a tutela della salute dei lavoratori che sono entrate in vigore prima del 1970, norme sicuramente vigenti quanto meno dall’epoca dei D.P.R. nr. 547/55 e nr. 303/56.

 

Quanto all’INTERPRETAZIONE GIURIDICA DELL’ART. 437 CP, per l’appellante fulcro e punto centrale di riferimento relativamente al primo capo d’imputazione, considerato come la fattispecie normativa alla quale vanno riferite e conseguono le singole imputazioni, premesso che il Tribunale avrebbe dedicato a tale norma poche, carenti, contraddittorie e generiche osservazioni liquidando come insussistente il fatto ascritto agli imputati, si precisa che nel presente procedimento tutte le condotte omissive dolose ascritte agli imputati ai sensi dell’art. 437 c.p. sono riferite, costituendo l’oggetto dell’imputazione penale, alle singole e specifiche violazioni delle disposizioni speciali in materia antinfortunistica e di igiene del lavoro e alla violazione dell’art. 2087 c.c., norma di chiusura: sono riferite cioè a tutte le disposizioni normative espressamente previste nello stesso capo d’imputazione.

 

E rispetto alle condotte individuate sarebbero stati esattamente individuati e provati i fatti specifici ascritti agli imputati, affermandosi che questi fatti hanno costituito violazione dei doveri di sicurezza in materia di lavoro; commessi consapevolmente, sono fatti la cui volontarietà ha concretizzato il reato dell’art. 437 1° comma c.p. determinando, nella verificazione dei molteplici eventi costituenti malattie e il disastro colposo, l’aggravamento della richiesta della pena come previsto dal 2° comma dello stesso articolo.

 

Si sostiene preliminarmente in ordine alla natura oggettiva e soggettiva di tale reato, che la motivazione dell’impugnata sentenza dimostra un’evidente incongruenza che inficia già dall’inizio l’intero impianto logico su cui è costruita. Ed infatti si fa osservare che mentre inizialmente essa nega la configurazione del reato dal punto di vista oggettivo, soffermandosi sulla natura e sulla nozione dei concetti di “impianti”, “apparecchi” “segnali”, sulla locuzione “destinati a”, sull’interpretazione del termine “collocati”, successivamente sostiene, in contraddizione con quanto poco prima affermato, che non vi è stata alcuna consapevole volontà da parte degli imputati di omettere quelle stesse condotte che tuttavia aveva negato essere esistenti sul piano oggettivo (“di astenersi dal collocare impianti ed apparecchi diretti a neutralizzare la situazione di rischio, precisamente riconosciuta come tale dai medesimi”).

 

Circa l’ASSERITA INSUSSISTENZA DEL REATO EX ART. 437 C.P. SUL PIANO OGGETTIVO, ci si lamenta che il Tribunale abbia fornito a più riprese una interpretazione capziosamente rigorosissima - quanto assolutamente priva di seguito sia in dottrina che in giurisprudenza - della previsione normativa e della sua applicabilità in concreto. Interpretazione che, se si dovesse seguire la tesi del Collegio giudicante, verrebbe a vanificare l’applicabilità della fattispecie astratta ogni qual volta un Giudice si dovesse trovare di fronte all’imputazione per il reato di cui all’art. 437 c.p.. Infatti esordisce il Collegio con l’affermazione “…la previsione normativa di cui all’art. 437 c.p.……è caratterizzata sotto il profilo oggettivo dalla sussistenza di violazioni del dovere di sicurezza aventi particolare serietà” (pag. 459).

 

E facendo tesoro di quest’ultima gratuita asserzione, la sentenza nega la sussistenza del reato sotto l’aspetto oggettivo sostenendo con puntiglioso vigore che le condotte omissive attribuite agli imputati sarebbero estranee alle nozioni espresse dalla  norma penale  in questione. Si osserva invece da parte dell’appellante che l’art. 437 c.p.  trova il suo primo, insopprimibile e fondamentale punto di riferimento negli articoli 32 1° comma e 41 della Costituzione che sanciscono il diritto della salute dell’individuo anchge nelle nelle sue formazioni collettive. Dunque è dalla Carta  costituzionale che derivano, concretizzandone i principi fondamentali, le disposizioni della normativa speciale che in questo processo sono  state enucleate e circoscritte,  quanto al  primo capo  d’imputazione, nei  D.P.R.  547/55,  303/56, nonché nell’art. 2087 c.c., oltre che  nelle  norme  derivanti dai contratti lavoro.

 

Tali norme speciali, che il Tribunale avrebbe decisamente ignorato, contengono tutte secondo l’appellante che così vuole risalire alla ratio dell’art. 437 cp, una disposizione di carattere generale, dalla quale non si può prescindere, che costituisce il “cappello” al rispettivo testo legislativo.Si tratta dell’art. 4 del D.P.R. 547/55 e dell’art. 4 del D.P.R. 303/56, norme che sono l’una lo specchio dell’altra: esse contengono il principio imprescindibile che impone l’obbligo per il datore di lavoro di attuare ogni misura diretta ad evitare che la sicurezza e la salute del prestatore di lavoro possano essere poste in pericolo e/o danneggiate. E’ il bene dell’integrità dei lavoratori l’oggetto centrale della tutela posta dall’art. 437 c.p., che interviene con al sanzione ogni qualvolta vi sia una volontaria violazione degli obblighi imposti a tali fini dalle norme speciali.

La norma di cui all’art. 437 c.p. è dunque diretta ad  anticipare  – reprimendo la condotta omissiva (o commissiva) – la soglia di tutela  rispetto all’effettiva lesione del bene  protetto,  imponendo che vengano adottate tutte le misure cautelari per evitare ingiustificati innalzamenti del rischio nell’esercizio di qualunque attività economica.

Il Tribunale invece, ne ha inopinatamente, ingiustificatamente, illegittimamente e arbitrariamente voluto restringere l’operatività, procedendo, sulla base di una elencazione fondata sul significato lessicale dei vocaboli usati dalla norma penale, ad escludere dal novero della previsione normativa dell’art. 437 c.p., e quindi dalla possibilità di attribuzione del reato agli imputati sotto il profilo oggettivo:

a)tutti quegli strumenti o dispositivi (non collocati per effetto delle condotte omissive addebitate dall’accusa) che sotto il profilo oggettivo ritiene non rientranti nel concetto di impianti (“caratterizzati dalla stabilità”) o nel concetto di apparecchi (“caratterizzati dalla complessità tecnica”)(pag. 460);

b)tutte quelle condotte omissive contestate che ritiene o generiche per mancata individuazione dell’oggetto su cui cadono (meglio, non cadono), o non correlabili alla nozione di collocazione di apparecchi antinfortunistici (pag. 460-461);

c)tutte quelle condotte omissive contestate che ritiene attinenti a “modalità operative” e non ad attività di natura preventiva ed antinfortunistica (pag. 461).

 

In realtà, secondo l’appellante, la stessa dottrina più accreditata in materia e la costante giurisprudenza sostengono unanimemente il principio di carattere generale secondo cui l’interprete non è autorizzato, sia dal dato testuale della norma sia dalla ratio complessiva, ad introdurre elementi restrittivi tali da costituire insidiosi svuotamenti della norma. Richiedendosi solo, secondo citati pronunciati della Suprema Corte, “che il comportamento dell’agente si concreti nella omissione, rimozione o danneggiamento di apparecchiature che risultino necessarie per la prevenzione di infortuni in relazione ad una collettività lavorativa la cui entità pone essa stessa le condizioni della diffusibilità del pericolo” (Cass. sez. I 2.3.1983).

 

Quanto dunque al primo assunto (a), il Tribunale, per negare l’attribuibilità delle condotte specificamente contestate agli imputati, concentra l’attenzione sulla nozione “destinati a”, senza avvedersi che proprio quelle condotte che sono state contestate in questo giudizio hanno tutte un comune denominatore, costituito dall’essere state dirette a vanificare la sicurezza dei prestatori di lavoro nell’esercizio dell’attività in termini prevenzionistici e antinfortunistici. “Destinati a” dice l’art. 437 c.p., e dunque deve trattarsi di un qualunque congegno di qualsiasi rilievo a funzione prevenzionistica. Dunque anche i mezzi di protezione personale che costituiscono fondamentale strumento per il corretto esercizio di una doverosa attività di cautela e di prevenzione ai fini della sicrezza sul luogo di lavoro, cautela che nello stabilimento Petrolchimico non sarebbe stata adottata, per come riconosciuto dallo stesso Tribunale almeno fino al 1974.

 

Quanto al secondo assunto (b), gli addebiti liquidati dal Collegio come “generici” o “non correlabili” (le condotte omissive relative al blocco degli impianti, al risanamento dei medesimi, alla manutenzione degli elementi degli impianti più soggetti a deterioramento, alle misure necessarie a tutelare la salute dei lavoratori, all’emissione dei provvedimenti conseguenti alla segnalazione dell’Istituto di Medicina del Lavoro, alla manutenzione in ordine alla sostituzione degli organi di tenuta) non solo trovano nell’istruttoria dibattimentale svolta la loro concretezza in situazioni di luogo e di tempo, ma è la loro stessa individuazione nell’imputazione a trovare corrispondenza nella fattispecie astratta descritta dalle norme speciali. Gli addebiti mossi sarebbero infatti immediatamente riconducibili alle disposizioni che nel capo d’imputazione identificano la condotta tenuta (ovvero, non tenuta) dagli imputati: in primis alle norme più sopra citate (gli articoli 4 dei due D.P.R. in tema di sicurezza e salute) che fanno parte del corpo normativo della legislazione speciale, costituendone i principi introduttivi che fondano le condotte doverose; a seguire le singole disposizioni citate; in chiusura l’art. 2087 c.c.

Quanto al terzo assunto ( c ) in forza del quale il Tribunale vorrebbe escludere l’operatività dell’art. 437 c.p. in  relazione a quelle condotte contestate che ritiene costituire soltanto “modalità operative”, diverse quindi dalla omissione di cautele (omessa sorveglianza sanitaria, omessa informazione ai dipendenti, omessa adozione di particolari sistemi di organizzazione del lavoro o differenti procedure, omesso controllo dell’uso dei mezzi di sicurezza personale, omessa separazione delle lavorazioni insalubri), si sostiene contrariamente che le condotte omissive ora enunciate  trovano nelle disposizioni speciali la loro esatta e puntuale collocazione, laddove esse impongono che tali attività preventive siano svolte nel rispetto della sicurezza e della salute dei prestatori di lavoro nell’esercizio dell’attività imprenditoriale.

 

Passando alla questione relativa al PROFILO SOGGETTIVO DEL REATO EX ART. 437 C.P., si osserva come essa sia sorprendentemente esposta dal Tribunale in termini del tutto riduttivi, concludendo nel senso che gli imputati, nella consapevolezza della condizione di rischio correlata all’esposizione degli operatori, affrontarono adeguatamente la situazione adottando tutte le iniziative idonee. Lamenta al riguardo l’appellante che della grandissima parte degli elementi probatori emersi nel corso del dibattimento di primo grado la motivazione o non ha tenuto conto, o ne ha estrapolato solo alcune parti per fondare le proprie motivazioni, tralasciandone altre di uguale e contraria portata, o, infine, ne ha evitato la doverosa opera di confutazione.

 

Contrariamente il P.M. appellante, premesso in diritto sul tema del dolo nel reato di cui all’art. 437 c.p. che la condotta dolosa addebitata ai sensi dell’art. 437, I° comma c.p. agli imputati di questo processo è quella di avere omesso, con coscienza e volontà, tutte le doverose cautele indicate dal capo d’imputazione, con la consapevolezza che tali cautele avevano lo scopo di prevenire il disastro, sostiene che tali elementi, comprovati dall’istruttoria dibattimentale, mettono in luce prima di tutto che gli imputati, tutti, dovevano conoscere e conoscevano le specifiche e inderogabili prescrizioni contenute nelle norme dei D.P.R. 547/55 e 303/56 che il capo d’imputazione ha dettagliamente descritto. Dovevano conoscere e conoscevano il dovere di diligenza e di perizia dettato dall’art. 2087 c.c.: dovere qualificato, perché posto in capo a datore di lavoro.

 

Dovere di diligenza che significa anche dovere d’informazione, anche in relazione a tutto ciò che attiene le conoscenze scientifiche e tecniche, e che imponeva agli imputati di adottare precisi comportamenti e di apprestare tutti i mezzi per la concreta tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori.

E sostiene l’appellante che nella specie gli imputati di questo processo si sono esattamente rappresentati la situazione di grave rischio lavorativo che incombeva sui dipendenti nel lavorare sostanze conosciute da decenni come tossiche e poi come cancerogene e si sono conseguentemente rappresentati gli strumenti necessari ad evitare o a contenere le dinamiche offensive, ma pur in tale consapevolezza e conoscenza non hanno ottemperato ai loro doveri.

Secondo il P.M. infatti il processo di primo grado ha provato che il CVM è conosciuto sin dagli anni ’40 come sostanza tossica per il fegato e per gli arti, produttrice di malattie quali il morbo di Raynaud, l’acroosteolisi, varie forme di epatopatia; ha provato che ben prima del 1974 le aziende chimiche produttrici della sostanza e dei suoi derivati avevano saputo quali erano stati i risultati delle indagini scientifiche svolte a livello mondiale sulla cancerogenicità del CVM-PVC; l’istruttoria ha provato che ne erano venute a conoscenza per prime, suggellando con il noto patto di segretezza tra europei ed americani la volontà di mantenere occulta la notizia.

A fronte di questa conoscenza gli imputati avrebbero dovuto attivarsi usando le tecnologie esistenti al fine di predisporre i mezzi di tutela e di prevenzione che la legge loro imponeva; eliminando tutte le situazioni lesive determinate da impianti irrecuperabili o bisognosi di manutenzione, fonti di rischio continuo per chi vi lavorava; predisponendo mezzi e sistemi di protezione, prevenzione e controllo come quelli di cui dà ampia descrizione l’imputazione ad essi ascritta. Tutto questo non è stato fatto –secondo il P.M.- perché non è stato voluto, Dunque neppure può escludersi la sussistenza dell’elemento psicologico del reato.

Al riguardo il P.M. appellante, riaffermati i concetti in ordine al dovere di sicurezza che incombe sul datore di lavoro in forza delle previsioni di cui all’art. 2087 C.C. ed ai DD.P.R. 547/55 e 303/56, ripercorre la cronologia delle conoscenze sulla nocività del CVM-PVC facendole appunto risalire agli anni ’40, e sugli studi sugli animali e sull’uomo che portarono alla conoscenza fin dagli anni ’60 anche della cancerogenità, tenuta nascosta dalle industrie chimiche europee ed americane in forza di un patto di segretezza che si sostiene provato anche documentalmente.

Lamenta dunque che il Tribunale non ha tenuto in conto i fondamentali e cogenti obblighi imposti al datore di lavoro dall’art. 2087 C.C., ma neppure ha dato rilevanza alle conoscenze sulla tossicità del cvm-PVC, facendo anche confusione continua tra i concetti di tossicità e cancerogenicità, trattandoli alla stessa maniera, come se fossero la stessa cosa. Precisa invece l’appellante che il rischio tossico del CVM da parte delle aziende non era e non poteva essere ignorato negli anni sessanta: non era ignoto, era volutamente ignorato. Cosa diversa il rischio oncogeno, che anche temporalmente è emerso dopo il rischio tossico, ma comunque non nel 1974 come sostiene il Tribunale, ma già nel corso degli anni sessanta, anche se si è avuta consapevolezza certa di ciò, a livello mondiale, solo con il prof. Viola nel 1969, dopo una serie di studi, citati e documentati, che dai primi anni sessanta avevano confermato i sospetti in tal senso, ed il tutto era ben noto a Montedison.

Il Tribunale dunque avrebbe errato di fatto lì dove ha detto che il CVM deve ritenersi cancerogeno solo dal 1974 e che, quindi, soltanto  dal 1974 incombevano sul datore di lavoro gli obblighi normativamente previsti.

In realtà, osserva il P.M., dopo la presentazione del lavoro di Viola a Tokyo, c’è stato l’intervento di maggio a Houston. Però, contemporaneamente, nel maggio del 1970, era stato pubblicato su Medicina del Lavoro un approfondimento del dottor Viola  sulla situazione del cloruro di vinile. Questo studio del dottor Viola, oltre che essere pubblicato su “La Medicina del Lavoro”, quindi su una rivista italiana ben nota e ben considerata, è stato trovato anche negli Stati Uniti tra la documentazione delle varie società industriali,  a conferma del clamore creato dall’ingresso del prof. Viola sulla scena mondiale. Viola dice che, pur parlando di animali, il suo obiettivo rimane pur sempre l’uomo.

E dice anche che le lesioni ossee dei tessuti connettivali sono simili  a quelle osservate nell’uomo. Pertanto, conclude confermando le raccomandazioni espresse al sedicesimo congresso internazionale di Medicina del Lavoro di Tokyo nel 1969: “vorrei che venissero prese alcune precauzioni negli stabilimenti di produzione, quali la riduzione del valore limite di soglia del monomero e la sostituzione della pulitura manuale delle autoclavi con mezzi automatici”: e il direttore-proprietario della rivista “La Medicina del Lavoro” era Enrico Vigliani, direttore della clinica del lavoro di Milano e autorevole consulente di Montedison, sia personalmente che attraverso il suo allievo prof. Ghetti, anche per i problemi connessi ai tumori professionali. L’attenzione alla problematica lanciata da Viola da parte delle industrie del settore a livello internazionale, sarebbe d’altra parte provata documentalmente, così come peraltro sarebbe documentalmente provato che la risposta fu quella dell’occultamento della notizia attraverso il c.d. patto di segretezza.

 

Nello specifico, il P.M., lamenta poi che il Tribunale nell’attribuire al CVM solo l'angiosarcoma epatico, il fenomeno di RAYNAUD, l’acroosteolisi e pochi rari casi di epatopatia, escludendo qualsiasi altra patologia, in maniera estremamente contraddittoria, ha chiuso completamente gli occhi di fronte ad un dato storico e processuale incontestabile e cioè che il CVM sia, innanzi tutto, un epatotossico generale ed ha di fatto negato l'esistenza di studi e di pronunciamenti anche di organismi internazionali sulla natura tossica del CVM e del PVC per il fegato e per i polmoni: natura tossica innanzitutto e poi anche cancerogena.

 

L’impostazione del Tribunale sarebbe sbagliata in fatto, in quanto tutti i maggiori organismi e organizzazioni internazionali e nazionali (quelli di indiscutibile serietà e prestigio) hanno confermato tale natura tossica del CVM-PVC, ed hanno ritenuto pure la cancerogenicità del CVM. E  persino gli organismi d’origine industriale, statunitense ed europea, non hanno avuto mai dubbi sulla tossicità del CVM e poi sulla sua cancerogenicità tanto da descriverlo come un cancerogeno totipotente, fin dal 1974.

La natura tossica del CVM-PVC risulterebbe d’altra parte pure da specifiche schede cosiddette di sicurezza di origine aziendale, che costituiscono una sorta di confessione extra-giudiziale, e consapevolezza sulla tossicità da parte degli imputati emergerebbe altresì dai loro acquisiti  interrogatori in sede di indagine preliminare, e dalle indicazioni sul punto dello stesso sanitario Montedison di Porto Marghera,  dottor Salvatore Giudice, che  in un documento agli atti del 1971 espressamente parlava delle “tecnopatie” causate dal CVM  e che in aula ha detto tranquillamente che, giunto a Porto Marghera, nel 1969, sapeva già che il CVM era un epatotossico.

 

Procede poi il P.M., con citazione di specifici brani della sentenza e relative proprie osservazioni, ad analisi della situazione degli impianti CVM-PVC di Porto Marghera che ritiene vetusti, obsoleti e inadeguati alle sostanze tossiche e cancerogene trattate, e sostenendo che la sentenza assolutoria del Tribunale deve essere radicalmente riformata per i seguenti principali motivi:

- omessa valutazione di fatti e dati offerti all’esame del Tribunale, così come emergenti dalla documentazione acquisita presso Enichem e Montedison;

- omessa valutazione degli stessi dati, così come esposti e provati dalla disamina dei consulenti del P.M. e delle parti civili;

- incomprensibile e comunque immotivato appiattimento sulle posizioni dei consulenti tecnici di Enichem e Montedison, dei quali sono riportati pari pari in sentenza interi brani tratti dalle loro relazione tecniche, senza alcuna considerazione, né alcuna critica (nemmeno negativa) di quanto sostenuto e provato in senso contrario dal P.M., dalle parti civili e dai loro consulenti;

- deformazione e travisamento delle dichiarazioni dei testimoni assunti in dibattimento;

utilizzazione di dati di fatto completamente sbagliati, ma tratti pari pari dalle memorie della difesa.

 

Lamenta il P.M. che l’assunto indimostrato da cui parte (e a cui, poi, arriva inevitabilmente) il Tribunale è quello relativo al fatto che MONTEDISON, quando nel 1974 sarebbe divenuta consapevole del pericolo cancerogeno costituito dal CVM, avrebbe fatto immediatamente di tutto per garantire la sicurezza degli operai. Una tale asserzione del Tribunale è stata fatta in relazione sia all'accusa di cui all'art. 437 c.p., sia a quella di disastro innominato colposo, sia a quella di lesioni e morti colpose. E però una tale asserzione sarebbe profondamente errata per tutta una serie di considerazioni, soprattutto di fatto.

 

Primo e gravissimo errore del Tribunale sarebbe stato quello di “cancellare” dal suo esame e dalle sue valutazioni il fattore “tossicità” e trattare solo quello relativo alla cancerogenicità.

Infatti, la tossicità del CVM è emersa fin dagli anni cinquanta e da quell’epoca gli impianti dovevano adeguarsi alla normativa e tutelare la salute dei lavoratori. A ciò va aggiunto il fatto che anche il rischio cancerogeno è emerso durante gli anni sessanta, comunque ben prima del 1974 e quantomeno dal 1969 con gli studi del prof. Viola.

Inoltre, non corrisponderebbe assolutamente al vero quanto detto ancora dal Tribunale e cioè che gli impianti ed i reparti del CVM-PVC di Porto Marghera fossero dotati delle migliori tecnologie disponibili. Ciò non era vero all'epoca della messa in funzione dei primi impianti negli anni cinquanta e sessanta e tanto meno vero si dimostrò mano a mano che giungevano dagli studiosi e dai ricercatori le conferme della tossicità e poi della cancerogenicità del CVM.

Al riguardo, sostiene il P.M. che nel citare i lavori compiuti dall'azienda per adeguare gli impianti alle “emergenze cancerogene” (sempre dimenticando i problemi della tossicità), i giudici di primo grado sono incorsi in affermazioni, gratificanti per le aziende, che però non hanno assolutamente alcun riscontro con la realtà dei fatti.

Il Tribunale per sostenere la sua tesi ha ripetutamente fatto riferimento a limiti di esposizione al CVM per gli operai dei vari reparti, che dopo il 1973 sarebbero stati bassissimi e comunque senza effetto per la salute dei medesimi. Ma sostiene l’appellante che i dati  documentali agli atti del fascicolo processuale vanno in tutt'altra direzione e parlano di esposizioni elevate e molto elevate ancora per tutti gli anni settanta e, in alcuni casi, anche oltre. E cita al riguardo i bollettini d’origine aziendale che andrebbero ben oltre il 1973.

Inoltre, si sostiene nell’appello la totale inaffidabilità dei controlli ambientali sul CVM-PVC disposti in fabbrica a Porto Marghera (tra l'altro e in ogni caso, con grave e colpevole ritardo), per tutto l'arco temporale contestato ai vari imputati.

 

Lamenta poi il P.M. la generalizzata assoluzione degli imputati dalle contravvenzioni in materia di igiene e sicurezza sul lavoro  (DPR 547/55, DPR 303/56, DPR 10/9/82 n. 962). Assoluzione che peraltro, pur indistintamente e generalmente pronunciata dal Collegio, non risulta motivata né con riferimento alle singole contravvenzioni contestate in imputazione, né con riferimento alle prove fornite dal dibattimento che, per come analiticamente nei motivi precedenti ricostruite, dimostrano senza ombra di dubbio non solo l’inefficienza e la non adeguatezza del sistema di monitoraggio ad oggi utilizzato all’interno dello stabilimento ma, soprattutto, la sua non conformità nè ai dettami prescritti dagli artt. 21 e 21 del DPR 303/88 nè alle regole tecniche imposte dal DPR 962/82 abrogato dall’art. 13 del D. Leg.vo 25/2/2000, n. 66 che ha ricondotto tutta la materia in precedenza disciplinata dal citato DPR nell’ambito della generale disciplina dettata dal D. leg.vo 626/94 e successive modifiche, recuperando, in particolare, quanto alle tecniche di monitoraggio, i sistemi di controllo ambientale previsti negli allegati al D. Leg.vo 277/91.

Osserva il P.M. che proprio tale modifica normativa dimostra che la materia è tuttora penalmente sanzionata sulla base delle norme incriminatrici contenute sia nel D. leg.vo 277/91 che nel D. Leg.vo 626/94: non vi è stata, pertanto, “abolitio criminis” ma soltanto successione delle leggi penali nel tempo. Il Tribunale avrebbe conseguentemente dovuto affrontare il problema della norma penale applicabile sulla base dei noti criteri contenuti nell’art. 2 del cod. penale.

Non lo ha fatto perché ha ritenuto -trascurando del tutto di considerare gli elementi di fatto illustrati dai CC.TT. dell’accusa e le relative implicazioni giuridiche prospettate nel corso della discussione- che il sistema di monitoraggio fosse rispettoso di tutti i dettati normativi e fosse davvero in grado di misurare la reale concentrazione del gas negli ambienti di lavoro.

Lamenta l’appellante che una tale valutazione è però errata sia in fatto che in diritto. Il Tribunale, infatti, non ha tenuto in alcun conto la denunciata insufficienza ed inadeguatezza del numero e della collocazione dei punti di prelievo (campanelle) nel reparto CV 24.

La sproporzione evidente tra il volume d’aria destinata ad essere campionato dalle campanelle a piano terra rispetto a quelle collocate sopra le autoclavi, ad esempio (700 mc per le prime contro 340 mc per le seconde), dimostra tale inadeguatezza e consente di fondare la censura della violazione dell’art. 4, I. C. DPR 962/82.

Ma le censure più gravi sono quelle relative all’imposizione di soglie massime di misurazione al gascromatografo. Esse sono inferiori addirittura alla soglia di allarme prevista dalla direttiva europea e dal DPR che ne ha dato attuazione: di qui la violazione dell’art. 5 di detto DPR 962/82.

Violazione che sussiste anche in relazione all’installazione ed al funzionamento dell’interruttore ON/OFF, dal momento che si è dimostrato come lo stesso abbia significativamente alterato gli automatismi su cui il legislatore contava proprio per impedire ogni possibilità di interventi correttivi nella rilevazione del gas.

 

Ma un tal genere di genere di monitoraggio è anche contrario agli obblighi affermati, ad esempio, dall’art. 20 del DPR 303/56. Da tale norma, infatti, scaturiscono sia il dovere di eliminazione e/o di progressiva riduzione all’infinito della possibilità di sviluppo e/o della diffusione del gas tossico sia il dovere di eliminare immediatamente, in caso di fuga, il gas nello stesso punto in cui lo stesso è stato prodotto.Di qui, conseguentemente, l’obbligo di aspirare il gas nei punti critici che dovranno, pertanto, essere verificati e controllati da un sistema di misurazione puntiforme capace di controllare, in ognuno di essi, il verificarsi  di una fuga e di consentire i tempestivi interventi di contenimento e di bonifica.Tutto questo avrebbe dovuto essere considerato dal Tribunale.

L’assoluzione dalle contravvenzioni relative alla materia, pertanto, non solo è ingiusta ma è immotivata, tenuto conto della loro contestata permanenza alla data della contestazione suppletiva e del pacifico mantenimento degli impianti di monitoraggio nelle condizioni e con le stesse modalità di funzionamento documentate sino al 1995 dalla documentazione esaminata dal C.T. prof. Nardelli.

 

Procede poi il P.M., con la consueta tecnica di citazione di specifici brani della sentenza e relative proprie osservazioni, ad analisi delle singole condotte omissive contestate agli imputati, erroneamente, si sostiene, non ritenute dal Tribunale.

 

Si precisa in particolare l’indicazione e l’illustrazione dei fatti che concretamente si contestano agli imputati, ognuno per il periodo di rispettiva competenza, sostenendosi che:

1.VENIVA OMESSO QUALSIASI INTERVENTO DI BLOCCO (definitivo o anche solo temporaneo) DEGLI  IMPIANTI, in particolare di quelli più obsoleti ed irrecuperabili, ad esempio il CV6, come evidenziato e richiesto dalle piattaforme e dai documenti sindacali (del 1975 e del 1977), nonché dalla mozione n. 4 presentata al Consiglio regionale Veneto il 4 agosto del 1975, mozione cui il Presidente della Montedison Eugenio CEFIS rispondeva in data 19 agosto 1975.

2. VENIVA OMESSO DI PREDISPORRE E COLLOCARE (o far collocare) SISTEMI E APPARECCHI DI SICUREZZA DESTINATI ED IDONEI A PREVENIRE LA INSORGENZA NEI DIPENDENTI DELLO STABILIMENTO PETROLCHIMICO DELLA MONTEDISON E DELLA MONTEFIBRE DI PORTO MARGHERA, NONCHE’ NEI DIPENDENTI DELLE VARIE COOPERATIVE D’APPALTO, DI TUMORI E MALATTIE (ANCHE GRAVISSIME), a causa del contatto con il CVM-PVC (e relativi componenti/additivi di polimerizzazione e lavorazione).

3. VENIVA OMESSO IL SEGNALATO RICHIESTO “INTERVENTO GLOBALE DI RISANAMENTO DEGLI IMPIANTI DA UN LATO E MISURE CHE GARANTISCANO PER IL FUTURO IL MONITORAGGIO CONTINUO DELL’AMBIENTE E DEGLI OPERAI”(relazione FULC e Università di Padova del 12.3.1977)

4. ANCORA PIU’ IN PARTICOLARE, LA COLPA (progressiva nel tempo) E’ CONSISTITA IN IMPRUDENZA, NEGLIGENZA, IMPERIZIA ED ESPRESSA VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 2087 C.C. – ARTT 236 CO.1 E 4, 244 LETT. A, 246, 354 CO. 1 E 2, 374, 375, 377, 383, 387, 389, 391 D.P.R. 27 APRILE 1955 N. 547 – ARTT. 3, 4, 17, 19, 20,21, 25, 58, 59 DEL D.P.R. 19 MARZO 1956 N. 303, PER NON AVER – PUR IN PRESENZA DELLE CONOSCENZE MEDICHE E SCIENTIFICHE DI CUI SOPRA – ADOTTATO NELL’ESERCIZIO DELL’IMPRESA TUTTE E IMMEDIATAMENTE LE MISURE NECESSARIE PER LA TUTELA DELLA SALUTE DEI LAVORATORI.

5. PER AVER INSERITO (o fatto inserire) NEI PROGRAMMI E NEI BUDGETS ANNUALI (o poliennali) DI INVESTIMENTO E DI MANUTENZIONE CAPITOLI DI SPESA RELATIVI, IN MANIERA SPECIFICA, AGLI IMPIANTI DEL CVM-PVC, DEL TUTTO INSUFFICIENTI RISPETTO ALLA NECESSITA’ DI ELIMINARE TOTALMENTE ED IMMEDIATAMENTE LE FUGHE DI GAS CVM, DI 1,2 DICLOROETANO E LE LORO IMPUREZZE DI REAZIONE NELL’AMBIENTE DI LAVORO (reparti) E NELL’AMBIENTE ESTERNO (a partire, in particolare, dal programma di investimenti 1973-75, datato novembre 1973, acquisito c/o la Prefettura di Venezia).

6. PER NON AVER CURATO CHE I LAVORATORI USASSERO TUTTI I MEZZI NECESSARI DI PROTEZIONE INDIVIDUALE (in particolare quelli addetti alla pulizia delle autoclavi, dei serbatoi di CVM, slurry, cicloesanone, delle colonne di strippaggio, degli essicatori e filtri, dei gasometri del CVM di recupero, nonché all’essiccamento e all’insacco) E GLI APPARECCHI RESPIRATORI IDONEI AD EVITARE L’ASPIRAZIONE DEI GAS.

7. PER NON AVER PREDISPOSTO MISURE DI SICUREZZA PER TUTTE LE FASI DEL CICLO PRODUTTIVO (comprese quelle di essicamento, stoccaggio, immagazzinamento, trasporto, carico, insaccamento, ecc.) E PER TUTTI GLI AMBIENTI DI LAVORO, COMPRESO IL LABORATORIO.

8. PER NON AVER SEPARATO LE LAVORAZIONI INSALUBRI, PONENDO IN PARTICOLARE ALL’ESTERNO DEI LOCALI LE PARTI DEGLI IMPIANTI POTENZIALMENTE SOGGETTE A PERDITE ANCHE STRAORDINARIE DEI GAS.

9. PER NON AVER DISPOSTO (o almeno richiesto) LO SPOSTAMENTO DAGLI AMBIENTI A RISCHIO CVM DEI LAVORATORI DELLA MONTEDISON E DELLA MONTEFIBRE, il cui spostamento era stato indicato come inevitabile nella relazione del marzo 1977 dell’Istituto di Medicina del Lavoro dell’Università di Padova.

10. PER NON AVER REAGITO IN ALCUNA MANIERA O COMUNQUE IN MANIERA INSUFFICIENTE, ALLE SEGNALAZIONI CONTENUTE IN DETTA RELAZIONE DEL MARZO 1977, in cui si parlava di “situazione sanitaria complessiva grave e tale da richiedere un intervento globale di risanamento degli impianti da un lato e misure che garantiscano per il futuro il monitoraggio continuo dell’ambiente e degli operai”.

11. PER AVER CREATO, ORGANIZZATO E MANTENUTO UN’INFERMERIA, UNA STRUTTURA SANITARIA E UN SERVIZIO MEDICO-SANITARIO ALL’INTERNO DELLO STABILIMENTO PETROLCHIMICO DELLA MONTEDISON E DELLA MONTEFIBRE DI PORTO MARGHERA DEL TUTTO INSUFFICIENTI RISPETTO ALLE NECESSITA’ DI PREVENZIONE E DI CONTROLLO DELLA SITUAZIONE SANITARIA GENERALE E PARTICOLARE DELLE MIGLIAIA DI DIPENDENTI DELL’INTERO STABILIMENTO PETROLCHIMICO e, in particolare, delle varie centinaia di dipendenti addetti alla lavorazione e trattazione in qualsiasi maniera del CVM-PVC, nonché dei dipendenti delle società cooperative che lavoravano in appalto all’interno dello stabilimento, entrando in contatto con il CVM-PVC.

12. PER NON AVER FORNITO INFORMAZIONI DETTAGLIATE E TEMPESTIVE AI PROPRI DIPENDENTI DI PORTO MARGHERA E AI DIPENDENTI DELLE DITTE CHE LAVORAVANO IN APPALTO IN ORDINE ALLA NOCIVITA’ E PERICOLOSITA’ DEL CVM-PVC (fin dal 1970) E DEL DICLOROETANO (fin dal 1977), ALLA REALTA’ IMPIANTISTICA E ALLE QUANTITA’DI EMISSIONE IN ARIA (sia all’interno che all’esterno dei singoli reparti), SE NON A SEGUITO DI PRESSANTI RICHIESTE SINDACALI (reiterate in particolare fino al 1977 e al 1980) generate dalle conoscenze acquisite “aliunde” dai lavoratori e dai loro rappresentanti di fabbrica e sindacali.

13. PER NON AVER MUNITO DI CAPPE DI ASPIRAZIONE E DI SISTEMI DI CAPTAZIONE DEGLI INQUINANTI IDONEI I LUOGHI IN CUI VENIVANO EFFETTUATE OPERAZIONI CHE PER MODALITA’ DI ESECUZIONE ESPONEVANO GLI OPERAI ADDETTI AD INALAZIONE DEI VAPORI, DI GAS E DELLE POLVERI SUINDICATI (tutte le fasi di lavorazione del PVC, tra cui le fasi di prelievo del lattice, pesatura e successiva analisi fisica, pulizia dei filtri, insaccamento del polivinilcloruro.

14. PER NON AVER REALIZZATO SUFFICIENTI INTERVENTI DI CONSERVAZIONE E MANUTENZIONE DEGLI ELEMENTI DEGLI IMPIANTI PIU’ SOGGETTI A DETERIORAMENTO E DEI QUALI ANDAVA GARANTITA LA PERFETTA TENUTA, ONDE EVITARE IL RISCHIO DI DISPERSIONE E FUGHE DI GAS IN AREE DI LAVORO (quali valvole, flange, premistoppa e compressori CVM.

15. PER NON AVER TEMPESTIVAMENTE INSTALLATO GASCROMATOGRAFI O ALTRI STRUMENTI DI RILEVAZIONE IN CONTINUO, PREDISPOSTI ANCHE PER SEGNALARE IMMEDIATAMENTE IN TUTTI I REPARTI LE FUGHE (ordinarie e straordinarie) DI GAS CVM (quantomeno dal 1972) E DI DICLOROETANO ( quantomeno dal 1978) NELL’ARIA DEI LUOGHI E DEI SINGOLI POSTI DI LAVORO.

16. PER AVER COMUNQUE INSTALLATO NEL 1975 E SUCCESSIVAMENTE CONTINUATO AD UTILIZZARE GASCROMATOGRAFI E RETI DI RILEVAMENTO DEL TUTTO INIDONEI A GARANTIRE LA TEMPESTIVA RILEVAZIONE DELLE FUGHE, L’ESATTA INDIVIDUAZIONE DEL PUNTO DI FUGA, NONCHE’ LA CONCENTRAZIONE DEL CVM NEI SINGOLI POSTI DI LAVORO, GASCROMATOGRAFI E RETI DI RILEVAMENTO PER DI PIÙ MALFUNZIONANTI E COMUNQUE IN CONTRASTO PURE CON LE PREVISIONI DELLA NORMATIVA C.E.E. – DIRETTIVA N. 78/610 – E CON IL D.P.R. 10 SETTEMBRE 1982 N. 962, NONCHE’ INSUFFICIENTI NUMERICAMENTE, con particolare riferimento al fatto che presso il reparto CV24, quantomeno fino al 1989, era necessario, ad esempio, interrompere il monitoraggio del CVM sull’intera linea in occasione delle ispezioni delle autoclavi (sprovviste di sistemi di monitoraggio autonomo) ad opera del personale addetto al controllo ed alla pulizia, ad ogni ciclo e quindi dopo ogni bonifica.

 

Ripropone poi il P.M. l’elenco dei lavoratori del Petrolchimico più a rischio, e cioè quelli addetti alle autoclavi, all’insacco e all’essiccamento del PVC, colpiti da diversificate patologie. Elenchi che durante la requisitoria erano stati proiettati sullo schermo e che, secondo l’appellante, anche visivamente venivano a confermare questa sorta di singolare epidemia che aveva colpito (e continua a colpire) gli operai in questione.

Ci si lamenta al riguardo che il Tribunale non ha considerato minimamente questi elenchi nel loro insieme, che specificavano – tra l’altro – anche i casi dei lavoratori assunti dopo il 1970. Pur avendo dovuto riconoscere l’esistenza di tali particolari mansioni a rischio, il Tribunale non ne avrebbe tratto – illogicamente e immotivamente – le conseguenze, non avendo valutando la massa imponente di dati storici ed oggettivi attestanti il pericolo corso da questi e da altri operai, pericoloso concretizzatosi con numerosi casi di malattia e di morte.

 

A sostegno di tale motivo l’appellante richiama l’argomento relativo alle mansioni degli autoclavisti e alle asserite modifiche portate alle autoclavi che sarebbe uno dei più emblematici e rappresentativi dell’intera sentenza impugnata in tema di mistificazione della realtà processuale. Sostiene infatti il P.M. che in questa parte della motivazione, più che in ogni altra, si rinviene una sbalorditiva concentrazione di errori, di contraddizioni in punto di fatto, di omissioni evidenti, di vere e proprie distorsioni ed alterazioni della realtà processuale emersa nel corso del dibattimento di primo grado. Al riguardo si evidenzia che in questa, come nelle altre parti della sentenza relative alle modifiche e agli interventi eseguiti sugli impianti dello stabilimento Petrolchimico, la motivazione accoglie in toto, considerandole come valido ed unico elemento di prova, le risultanze documentali provenienti dall’azienda. In particolare le già note “commesse”. Si ignorerebbero invece le prove documentali e testimoniali fornite dall’accusa, distorcendone altre per renderle favorevoli alla tesi sostenuta.

 

Secondo il P.M., così facendo, la sentenza si concentra sui dati forniti dalle “commesse” discusse dai CC.TT delle aziende, elevandoli ad elementi certi di una asserita ma non dimostrata modifica delle procedure e delle apparecchiature. E però, nel far questo, da un lato la sentenza cade in continua contraddizione persino con se stessa , dall’altro costruisce l’intero impianto logico su di un errore di fondo insuperabile: errore di fondo che consiste nel ritenere eseguiti gli interventi su impianti e procedure solo perché progettati dalle singole commesse.

Ma gli interventi o non sono mai stati realizzati o, anche se avviati, sono stati successivamente interrotti e abbandonati per l’inefficacia delle strumentazioni acquistate a seguito delle commesse. Commesse, dunque, che, elevate ad unico elemento probatorio dal Giudice di primo grado, dimostrano in pieno la totale fallacia e inaffidabilità.

 

Si citano dunque nell’atto di appello i passi della sentenza che trattano l’argomento con evidenziazione degli asseriti errori e contraddizioni e indicazione delle fonti probatorie che deporrebbero il contrario, rimarcando come il Tribunale omette ogni citazione testimoniale quando si tratta di deposizioni che rilevano l’inefficienza degli impianti; quando sceglie un teste estrapola solo le dichiarazioni concordanti con la tesi accolta dell’efficienza degli impianti.

Dunque secondo il P.M., i discordanti riferimenti testimoniali citati, le omissioni evidenti e le contraddizioni contenute nella stessa motivazione dimostrano ancora una volta l’erroneità della sentenza impugnata, che deve essere quindi radicalmente riformata.

Per analoghi motivi ritiene il P.M. che la sentenza di primo grado debba essere totalmente riformata anche in relazione alle posizioni riguardanti tutti i lavoratori addetti all’insacco.

Al riguardo ripercorre le quattro principali contestazioni d’accusa mosse agli imputati che fanno riferimento alla categoria degli operai addetti all’insacco.

 

1. Con particolare riferimento agli insaccatori soci delle cooperative in appalto, osserva l’appellante come il Tribunale, dopo aver escluso la sussistenza di una relazione causale (o concausale)  tra le  patologie respiratorie che hanno colpito tale categoria di lavoratori e l’ esposizione dei lavoratori  alla polvere di PVC, riconosce comunque  che vi è stato, da parte di Montedison, l’omissione del controllo dell’uso della maschera antipolvere nei confronti dei soci - lavoratori delle cooperative. In tal modo il Tribunale, fra  le condotte contestate nel capo di imputazione, ritiene fondata tale specifica omissione che trova espresso  riferimento normativo  nell’obbligo del datore di lavoro   “di disporre ed esigere che i lavoratori usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione …”, obbligo previsto  dall’ art. 4 lett. c del DPR 27 aprile 1955 n. 547 e art 4 DPR 303/56 che va messo in relazione, per quanto concerne il lavoro di insacco che espone il lavoratore al contatto con le polveri, con l’art. 387 del medesimo DPR 547 che fa obbligo “l’uso di maschere respiratorie a lavoratori esposti a specifici rischi di inalazioni pericolose di gas, polveri o fumi nocivi”.

 

E così il Tribunale, mentre:

- da un lato riconosce  l’applicabilità degli obblighi di cui alla citata normativa antinfortunistica in capo ai dirigenti di Montedison e a tutela  dei soci lavoratori delle cooperative – in evidente applicazione  degli artt. 3, 2 comma letta a) del DPR 547 e art. 3 DPR 303/56,  nonché del principio della cosiddetta “ingerenza” della ditta committente, che determina la responsabilità della ditta  committente – Montedison -  per eventi di malattia o morte che colpiscono i soci delle cooperative in appalto;- e, conseguentemente,  riconosce che questa categoria  di lavoratori  (ma non diversamente si può desumere anche per gli insaccatori dipendenti di Montedison) era soggetta a “specifici rischi di inalazioni pericolose” e  che  la polvere di PVC era a tutti gli effetti “nociva;

si pone poi in evidente contrasto   – con conseguente   vizio della sentenza sotto tale  profilo – con quanto dallo stesso assunto in altre parti della decisione   laddove ritiene la “non pericolosità”  della polvere di PVC e l’ insussistenza di situazione di alta polverosità degli ambienti di insacco (che, se insussistente,  avrebbe esentato i lavoratori dall’obbligo dell’uso delle maschere)  ed anzi assume  che Montedison ed Enichem  avrebbero  predisposto   tutti gli accorgimenti e gli interventi idonei ad evitarla.

 

Tanto, nonché l’omessa valutazione delle ulteriori specifiche contestazioni rende viziata, secondo l’appellante, la decisione. Ritenuta, infatti, la nocività del PVC  – sia in quanto “polvere” in sé (cfr art. 21, 1 comma, DPR303/56) sia in quanto polvere “pericolosa” (cfr il riferimento, seppur implicito, all’art. 387 ) - non si poteva non  rilevare la palese violazione  degli  altri obblighi   contestati nel capo di imputazione.

2.              Palese poi, secondo l’appellante, la violazione dell’obbligo di “rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui erano esposti…” (cfr art. 4 lett b DPR 547/55e art. 4 e  5 DPR 303/56), violazione contestata all’ultima riga di pag. 6 del capo di imputazione (“per non aver fornito informazioni dettagliate … ai dipendenti delle ditte..”).

 

Al riguardo sostiene l’appellante che intanto sicuramente esistente, in forza delle evidenze processuali fondate sulle relazioni dei consulenti tecnici che si richiamano in ordine al punto specifico, era il rischio, quantomeno della nocività del PVC per l’apparato respiratorio dei lavoratori addetti all’insacco, e sicura la sua conoscenza in capo ai dirigenti Montedison che emergerebbe dai seguenti elementi probatori:

- dalla doverosa   conoscenza della normativa vigente (il DPR 303/56, art 21 , impone, ad esempio,  al datore di lavoro di evitare il contatto  e/o di ridurre la dispersione delle “poveri in genere” mentre  l’articolo 33 e la tabella richiamata prevede l’obbligo di effettuare visite trimestrali nei confronti di lavoratori addetti all’impiego del cloro e dei suoi composti);

- dalla conoscenza certa sin dagli anni cinquanta e sessanta che all’interno del polimero, in particolare nel PVC in sospensione,  erano inglobate molecole di CVM, come è confermato anche indirettamente dal fatto che l’impresa avrebbe negli anni ‘76 e ‘77, a suo dire, introdotto il sistema di strippaggio proprio per prelevare queste molecole di CVM;

- dai rilievi svolti dai singoli operatori che accertavano, contrariamente alle rilevazioni  dell’impresa, che la presenza di CVM nei locali addetti all’insacco  era particolarmente consistente;

- dalla scheda della Montedipe numero 336 del 05/07/85 in cui il PVC viene definito “tossico acuto per inalazione” e che - si dice- “induce alterazione al sistema respiratorio”;

- dalla consegna ai lavoratori (solo quelli dipendenti) del dentifricio NOVO SATURNO da usare prima dei pasti, per evitare l’ingestione delle polveri e dei vapori depositati nel cavo orale da parte dei lavoratori del CVM-PVC;

dal fatto che nel 1967 vennero pubblicati, come detto, sulla Tribuna del CEBEDEAU (Liegi) i risultati delle indagini sui granuli del PVC svolte da Montedison.

 

Di converso la contestata violazione dell’obbligo di informazione sarebbe invece dimostrata, dai seguenti elementi:

- dai contratti di appalto  con le varie Cooperative, dove non vi è cenno alcuno al rischio specifico per i lavoratori derivante dalla polvere di PVC e dal CVM nella stessa contenuto come monomero residuo;

- dalla lettera  del maggio del 1984 con la quale il dott. Clini  chiedeva a Montedison, Montepolimeri, a Riveda e alla Cooperativa Facchini Tessera, i motivi per i quali non sono stati comunicati al suo servizio i nominativi dei lavoratori delle cooperative per la tutela sanitaria;

-  dalle testimonianza  dei testi Barina, insaccatore dal ‘76 all’80, che ricorda   che ai corsi per la prevenzione non vi erano i lavoratori delle cooperative; Battaggia che esclude nel modo assoluto di essere stato informato della pericolosità del PVC  e del CVM in esso contenuto come monomero residuo; Pezzato, che ha lavorato dall’80 all’86, ma non ricorda che gli sia stata mai comunicata tale pericolosità; De Catto che non è mai stato avvertito da nessuno, ma lo è venuto a sapere  indirettamente dai dipendenti; Giacomello, che dichiara pure lui saperlo soltanto dagli anni 80; ed anche il teste della difesa Gasparini, che è il principale teste, dice che i capi delle cooperative erano messi a conoscenza della pericolosità del CVM, ma non del PVC.

Connesso al predetto obbligo sarebbe poi quello del committente di accertarsi che l’appaltatore a cui affida l’opera sia soggetto non soltanto munito di titoli di idoneità previsti dalla legge, ma anche della capacità tecnica e professionale in relazione al tipo di lavoro che gli è stato affidato. E anche in riferimento a questo obbligo  vi è, secondo l’appellante, il fondato dubbio che, nel caso in esame, vi sia stata una violazione di legge.

3.  Risulta, ancora,  provata la violazione dell’obbligo  del datore di lavoro e  committente dei lavori in appalto di “adottare intereventi volti ad impedire o a ridurre lo sviluppo o la diffusione della polvere”   (art. 21 comma 1 DPR 303/56 ) e  di “ove non sia possibile sostituire il materiale di lavorazione polveroso, di adottare procedimenti lavorativi in apparecchi chiusi muniti di sistemi di aspirazione e di raccolta delle polveri…”  “…vicino al luogo di lavoro …”, ..”comunque impedendo alle polveri di rientrare nell’ambiente di lavoro “ (art 21 comma 3,4,5 e 7 DPR), norme richiamate nel capo d’imputazione con specifica contestazione.

Al riguardo, ricordate le tecniche di produzione del PVC (con polimerizzazione del CVM in “emulsione”, adottata presso l’impianto CV6, e con polimerizzazione in “sospensione” adottata presso gli impianti CV14, CV16, CV24/CV25), contesta il P.M. l’assunto del Tribunale secondo il quale la polverosità dell’ambiente conseguente alla polimerizzazione in sospensione sarebbe migliorata dopo i primi anni settanta, affermandosi invece che tale miglioramento e adeguamento impiantistico sarebbe sconfessato da ben 7 testi, e perché gli interventi tecnici realizzati sarebbero comunque o tardivi o inutili, onde la valutazione del Tribunale sarebbe oltre che erronea frutto di travisamento dei fatti emergenti dalle dichiarazioni testimoniali, e ricorda l’appellante le testimonianze non considerate dal Tribunale e quelle asseritamente travisate.

E così fondata sarebbe  l’accusa di “aver omesso le misure quali  …. il monitoraggio continuo dell’ambiente e degli operai…”  e “di non aver tempestivamente installati gascromatografi o altri strumenti di rilevazione in continuo” negli ambienti di insacco.

 

Sarebbe infatti dato indiscutibile che gli ambienti dove veniva svolto l’insacco  non sono mai stati   ricompresi tra le “zone sorvegliate”, fatto confermato da tutti i testi escussi, mentre sul punto nulla dice il tribunale che anzi lo ritiene irrilevante perché  la presenza di CVM residuo nel PVC in emulsione sarebbe stato inferiore od eguale ad 1 PPM. Ma le cose, secondo il P.M., non starebbero così in quanto nell’apice  del reparto CV6 , dopo il degasaggio , rimane ancora presente  una notevole quantità di CVM residuo, CVM  che si libera in ambiente dagli sfiati dei serbatoi di stoccaggio dell’apice e dalle successive apparecchiature. E sottolinea l’appellante come il Tribunale dimentichi  che i  bollettini di analisi – a campione - che avvalorano tale dato sono del periodo  1987 - 1989 e quindi assai recenti  ( nulla ci dicono della presenza del CVM in epoca anteriore)   e che  il  teste Perazzolo ha riferito che il quantitativo di CVM che si riscontrava con gli  apparecchi di rilevazione  presso il magazzino PVC o CV7 era  “di  base” pari a non meno di 10 PPM. Ragione questa che doveva imporre il monitoraggio continuo in tali ambienti.

 

4) E’ Fondata,  ancora, per il P.M.,  la contestazione “di aver creato organizzato e mantenuto all’interno dello stabilimento petrolchimico di Porto Marghera, un servizio sanitario del tutto insufficiente rispetto alle necessità di prevenzione e di controllo della situazione generale e in particolare dei dipendenti delle cooperative che entravano in contatto con CVM e PVC”.

Lamenta l’appellante che sul punto il Tribunale  nulla assume,  nonostante fosse pacifico che  i soci delle cooperative, dalle misure sanitarie praticate agli altri lavoratori, periodicità dei controlli normativamente previsti per gli addetti a produzioni nocive e ai lavoratori del ciclo del cloro (cfr art. 33 DPR 303/56), sono sempre stati i grandi esclusi, fatto comprovato in atti testimonialmente.

Analoghe censure muove poi l’appellante in merito ai lavoratori addetti alla manutenzione, in ordine ai quali nulla avrebbe riferito il Giudicante di primo grado.

 

Secondo il P.M. i dati certi che si traggono dalle dichiarazioni rese in sede dibattimentale e disattesi dal Giudicante di primo grado, sono due.

Innanzitutto, i testi sono concordi nell’affermare che mentre la manutenzione straordinaria, eseguita episodicamente a cura delle officine centrali, veniva normalmente svolta previa fermata degli impianti, la manutenzione ordinaria, eseguita anche quotidianamente e posta in essere dalle officine di zona e dalle squadre di reparto, veniva comunque fatta con gli impianti in esercizio e ciò con conseguente esposizione dei lavoratori addetti alle sostanze ivi lavorate.

In secondo luogo, i lavoratori sono concordi nel riferire che gli addetti alla manutenzione intervenivano sempre qualora si verificassero fughe di gas nei reparti senza, tuttavia, previa bonifica degli stessi e conseguente diretta esposizione ai gas tossici fuoriusciti.

Sul punto poi si ricorda ancora la mancata predisposizione ed il mancato controllo sull’utilizzo anche da parte dei manutentori dei mezzi di prevenzione personale, richiamando testimonianze al riguardo.

 

Ne deriverebbe come inevitabile conclusione l’esposizione a CVM ed a PVC dei lavoratori addetti alla manutenzione. Secondo il P.M. infatti, trattandosi di personale adibito agli interventi manutentivi all'interno di tutti i reparti, ivi compresi anche quelli ritenuti ad alto rischio espositivo dallo stesso Giudicante di primo grado, senza adeguati mezzi di prevenzione, senza previa sospensione degli impianti e senza infine previa bonifica in caso di intervento a seguito di fughe, è incontestabile l'esposizione di detti lavoratori a tutte le sostanze nocive prodotte nei singoli reparti.

Conclusioni che sarebbero conformi a quanto risultante dalle matrici mansione-esposizione pubblicate dai dott. Comba e  Pirastu e altri (“La mortalità dei produttori di cloruro di vinile in Italia in Med. Lav. 1991) sulla base di dati forniti dall’azienda. E conformi altresì alle risultanze d’origine aziendale della “Legenda dei reparti con esposizione diretta e/o indiretta degli addetti ai cancerogeni CVM, DCE, PVC, nonché ad altri agenti tossico nocivi presso il Petrolchimico di Porto Marghera”, egualmente agli atti del procedimento, legenda secondo la quale i lavoratori addetti a interventi manutentivi su impianti e macchinari nonchè negli ambienti di lavoro relativi a tutte le lavorazioni del CVM e PVC sono soggetti all’esposizione  di tutti gli agenti tossico nocivi presenti nei reparti frequentati. Ed altresì conformi alle indicazioni fornite dall’azienda che, conglobando i detti lavoratori nel cd. “Gruppo H” comprendente i laboratori di controllo, il parco serbatoi, le manutenzioni ed il controllo cromatografi (come risultante della lettera datata 12.6.1979 a firma dott. Giudice ed inviata al dott. Bartalini, discussa all’udienza 5.4.2000), risulta classificare i lavoratori addetti tra gli esposti. Lamenta poi l’appellante  un’altra grave omissione addebitabile al Tribunale, al quale era stato rappresentato, chiaramente e documentalmente, che dal 1970 in poi erano stati assunti ed erano stati assegnati ai reparti CVM –PVC decine di nuovi operai. Per costoro, quindi, l’esposizione al CVM-PVC iniziava dopo il 1969 e per tredici di loro persino dopo il 1973.

 

 Rilievo, questo, che si assume importante in quanto:

- secondo l’accusa, la  cancerogenicità  del CVM venne segnalata ufficialmente al mondo intero in occasione del Congresso internazionale di Medicina del Lavoro di Tokyo del settembre 1969, a seguito delle vicende  del Prof. Viola;

- secondo il Tribunale, l’epoca scriminante relativamente alla conoscenza della cancerogenicità del CVM è la fine dell’anno 1973, che coincide con la vicenda “Goodrich”.

Ciò significa che, dal punto di vista della conoscenza sulla  cancerogenicità, prendendo per buono l’assunto del Tribunale sull’inizio dei consequenziali obblighi per l’imprenditore, andavano in ogni caso, esaminate ed approfondite accuratamente le posizioni dei lavoratori:

- con inizio esposizione successiva al 1969 (accettando l’impostazione del P.M.);

- con inizio esposizione successiva al 1973 (accettando   l’impostazione del Tribunale).

Ma i Giudici di primo grado non hanno fatto né una cosa né l’altra.

 

Per contro, nel riproporre i relativi elenchi, sostiene il P.M. che meritavano una analisi particolareggiata quei lavoratori colpiti da patologie per le quali lo stesso Tribunale aveva riconosciuto un nesso causale (malattia di Raynaud ed epatopatie).

E meritava un’analisi, anche semplice, quel gruppo di lavoratori (21) che avevano iniziato ad essere esposti dopo il 1973, in un periodo in cui – secondo il Tribunale – ormai tutti i precedenti gravi problemi di esposizione al CVM-PVC sarebbero stati risolti.

In particolare, si cita il caso di Carlo Bolzonella, deceduto per epatocarcinoma, assunto nel 1981 ed andato in cassa integrazione nel 1989 (come già ricordato): morto dopo aver lavorato per MONTEDISON, per ENICHEM e per ENIMONT.

Ma nemmeno lui, rimarca l’appellante, ha meritato un commento per il Tribunale, nemmeno una riga sulla sua particolare situazione.

 

Anche per questi motivi, ritiene il P.M. che la sentenza di primo grado debba essere radicalmente riformata.

Rimarca poi ancora l’appellante la doglianza secondo la quale il Tribunale avrebbe operato, con USO  DISTORTO  DELLE  DICHIARAZIONI  TESTIMONIALI, una errata ricostruzione dei fatti storici oggetto della presente vicenda processuale estrapolando, dalle deposizioni dei numerosissimi testi assunti nel corso del dibattimento, solamente alcune affermazioni ed alcune circostanze, mirate alla decisione di cui al dispositivo, senza mai dare alcun conto dei criteri di selezione, scelta e valutazione adottati.

E cita al riguardo, a titolo esemplificativo, le testimonianze di GASPARINI Danilo, GIUDICE Salvatore, ALONGI Vittorio, BACCHETTA Enzo che porterebbero a diversa valutazione rispetto a quella avvalorata dal Tribunale.

 

Circa i reati di cui agli ARTT. 589 - 590 C.P. ed alla problematica della CASUALITA’, il P.M. appellante, premesse alcune considerazioni che troverebbero giustificazione a seguito della sentenza n. 30328 del 10.7/11.9..2002 emessa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sostiene che anche su questa parte, che può considerarsi il pilastro dell’intera vicenda processuale che ci riguarda la sentenza impugnata commette gravissimi errori di interpretazione del nesso causale: errori che riguardano sia l’interpretazione data dai Giudici di primo grado dell’istruttoria dibattimentale del presente processo penale, sia la stessa interpretazione giuridica del nesso causale in relazione alle condotte ascritte agli imputati e agli eventi di reato che ne sono conseguiti.

Osserva in particolare: che la sentenza delle SS.UU. della Suprema Corte, dirimente un contrasto interpretativo sorto in seno alla sezione IV dello stesso giudice di legittimità, pur riguardando un caso di responsabilità per attività medico-chirurgica, è riferibile – come la stessa pronuncia afferma espressamente – anche ai settori delle malattie professionali, delle alterazioni ambientali e del danno da prodotto.

 

Nello specifico settore delle malattie professionali si ritiene che essa si attagli precipuamente al caso oggetto della presente vicenda processuale.

L’imprescindibile riferimento ad essa consente, inoltre, di affermare la valenza della tesi sostenuta dall’accusa, in particolare di quanto questo Ufficio ebbe ad esporre in sede di replica della propria requisitoria all’udienza del 10 ottobre 2001 sulla questione giuridica del nesso causale.

Nel contempo, la pronuncia citata permette di evidenziare i gravi errori commessi dalla sentenza impugnata.

Premette al riguardo che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione – per usare le stesse parole della Corte - sono state chiamate a dirimere un conflitto interpretativo che non riguarda lo statuto condizionalistico e nomologico del rapporto di causalità, riguardando invece il contrasto giurisprudenziale a causa del quale è stato chiesto l’intervento delle Sezioni Unite la concreta verificabilità processuale di quello statuto, ovvero la individuazione dei criteri di determinazione e di apprezzamento del valore probabilistico della spiegazione causale.

 

E rivendica il P.M. che già in sede di replica nel giudizio di primo grado, seguendo un ragionamento logico analogo a quello che oggi si ritrova nella sentenza delle SS.UU., dopo aver fatto riferimento alle varie e diversificate pronunce della giurisprudenza di legittimità in tema di causa penalmente rilevante, si era soffermato sulla necessità di definire e precisare meglio il concetto di grado di probabilità. Aveva fatto riferimento a questo proposito alla sentenza 12.7.1991 della sez. IV, che riteneva sufficiente un grado di probabilità pari al 30% per ritenere sussistente il nesso causale tra la condotta omissiva del medico e l’evento lesivo. Ma solo come riferimento di minima, come si potrebbe chiamarlo, e solo per considerare che lo stesso concetto veniva ripreso da una sentenza di 10 anni dopo, il 17.9.2001, a ridosso della conclusione del primo grado di questo processo, sentenza che era in contrasto con le tre sentenze della stessa quarta sezione (estensore Battisti), che accoglievano un criterio più rigido di probabilità.

 

Errerebbe quindi la sentenza impugnata laddove, inspiegabilmente, addossa al Pubblico Ministero affermazioni di stretto diritto che non ha mai espresso, attribuendogli del tutto arbitrariamente “orientamenti che introducono nel processo ricostruttivo del nesso causale istanze di prevenzione generale”. Ma soprattutto erra nelle conclusioni cui giunge in tema di spiegazione del nesso causale.

Al riguardo, ricorda l’appellante che il Tribunale afferma che “il modello causale compatibile con il nostro ordinamento è quello idoneo ad includere non solo le spiegazioni nomologico-deduttive provviste di certezza (la copertura data dalla legge universale), ma anche le spiegazioni offerte dalla scienza secondo un modello statistico-induttivo che colloca l’approccio nomologico nello specifico contesto che valorizza la ricerca e l’analisi di tutti i fattori presenti e interagenti: in tale modo anche le leggi statistiche sarebbero in grado di spiegare che un evento si è verificato a patto che la frequenza consenta di inferire l’explanandum con quasi