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Petrolchimico di Porto
Marghera: la sentenza del 15.12.2004 della corte d’appello di Venezia oggetto: centinaia di operai ammalati e
uccisi dal cvm/pvc presso il petrolchimico e la montefibre di porto marghera
COSE CONTRO CUI
LA CLASSE OPERAIA LOTTAVA SIN DAGLI ANNI ’60-INIZIO ’70 E CHE L’ESPERIENZA DELL’ASSEMBLEA
AUTONOMA DEL PETROLCHIMICO, DI LAVOROZERO, CONTROLAVORO, AUTONOMIA, E COMITATO
OPERAIO DEL PETROLCHIMICO, RIPRODUSSERO NELLA COSCIENZA E NELLE LOTTE PER LA
MANUTENZIONE E LA QUINTA SQUADRA E CONTRO IL COLLABORAZIONISMO SINDACALE DELLA
TRIPLICE DI ALLORA
Questa sentenza pronunciata il 15
dicembre 2004 riforma parzialmente quella nefasta di primo grado che aveva
mandati assolti tutti gli imputati. Essa arriva ad oltre 10 anni
dall’esposto-denuncia presentato alla Procura della Repubblica di Venezia da
Medicina Democratica, tramite il caro compagno Gabriele Bortolozzo,
responsabile della Sezione Veneziana dell’Associazione e operaio del
Petrolchimico di Porto Marghera, deceduto nel 1995, mentre fermo ad un
semaforo, veniva travolto da un autotreno.
La Confederazione Unitaria di Base
(C.U.B.) e il Sindacato Chimici A.LL.C.A.-C.U.B., in questi dieci anni, si sono
concretamente impegnati assieme a Medicina Democratica, all’interno ed
all’esterno delle aule giudiziarie, per affermare verità e giustizia,
contribuendo così a ridare dignità e visibilità alle vittime, gli operai (e
loro famigliari) del Petrolchimico e della Montefibre di Porto Marghera.
Una sentenza che porta un barlume
di giustizia.
Le vittime, ovvero le parti civili
costituite, per affermare i propri diritti dovranno intentare cause civili in
relazione ai reati prescritti e non prescritti.
Circa le inaccettabili condizioni
di lavoro (letteralmente mortali!) esistenti nel Polo chimico di Porto Marghera
(Petrolchimico e Montefibre), al di là degli evidenti limiti insiti nella
sentenza per le numerose prescrizioni dei reati e per le attenuanti generiche
concesse, va sottolineato che essa fa emergere una significativa verità.
Infatti, nonostante l'intervenuta
prescrizione, viene sancita – anche a livello giudiziario - l'esistenza
del nesso di causalità fra l'esposizione lavorativa alle sostanze tossiche
e cancerogene, in primis CVM/PVC, e l'insorgenza nei lavoratori della malattia
di Raynaud, delle epatopatie, degli angiosarcomi del fegato, di altre neoplasie
e di infortuni/malattie professionali; inoltre, la stessa
sentenza evidenzia l'omessa collocazione degli impianti di
aspirazione nonchè l'avvenuto inquinamento delle acque della Laguna di Venezia
per lo sversamento nella stessa degli scarichi idrici inquinati derivanti dagli
impianti/processi del Petrolchimico, il tutto in violazione del DPR
962/1973 (Legge speciale per Venezia).
Concesse le attenuanti generiche,
gli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti, D'Arminio Monforte, sono stati
condannati alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione ciascuno, nonchè
al pagamento in solido delle spese processuali dei due gradi di giudizio.
Scorrendo, uno per uno, i
nomi delle centinaia di operai, uomini in carne ed ossa, uccisi dal CVM al
Petrolchimico ed alla Montefibre di Porto Marghera, non si può certo dire che
sia stata fatta giustizia.
Non va comunque taciuto che questa
sentenza cancella l'ignominia della sentenza di primo grado che aveva mandati
assolti tutti gli imputati – i boiardi della chimica italiana – con l'aberrante
affermazione: "il fatto non sussiste".
Non va neppure taciuto che quanto
si è riusciti a far emergere in tema di nesso di causalità fra esposizioni
lavorative negli impianti della filiera produttiva del Cloro/1,2 - DCE/CVM/PVC
del Polo chimico di Porto Marghera e le patologie neoplastiche e non
neoplastiche causate ai lavoratori addetti (ferme le peculiarità delle diverse
realtà produttive), potrebbe avere riflessi positivi nei processi penali
aperti relativi alle malattie e morti operaie nonchè all'inquinamento
ambientale, causati da altri impianti Petrolchimici come, per esempio, quelli
di Brindisi, Manfredonia, Ravenna, Ferrara, Mantova, Priolo, Porto Torres
ed altri.
Al di là dei suoi limiti, questa
sentenza d’appello riveste una notevole importanza sotto il triplice profilo
socio-culturale, politico-sindacale e giuridico. Essa costituisce per le
lavoratrici e i lavoratori (e non solo per essi!) un contributo tangibile per
il rilancio della mobilitazione e della lotta per l’abolizione delle produzioni
di morte (nel nostro caso il CVM/PVC e più in generale le sostanze cancerogene)
e per affermare i diritti inalienabili alla salute, alla sicurezza,
all’ambiente salubre, nonché per il rigoroso rispetto dei diritti umani, in una
parola per affermare la democrazia nella sua più estesa accezione.
La Confederazione Unitaria di Base
– C.U.B. e il Sindacato chimici A.LL.C.A. – C.U.B. attraverso la partecipazione
a questa storica esperienza hanno maturato e accumulato un notevole patrimonio
di conoscenze che verrà messo a frutto nelle future iniziative sindacali per la
tutela e la promozione della salute e dell’ambiente salubre nei luoghi di
lavoro e in ogni dove della società.
Da ultimo, ma non per
importanza, ringraziamo pubblicamente il Pubblico Ministero, Dr. Felice
Casson, per l'impegno civile profuso e per l'invalutabile lavoro giudiziario
condotto ininterrottamente per oltre dieci anni.
Analogo ringraziamento va all'Avv.
Luigi Scatturin – (e agli altri nostri Difensori e Consulenti Tecnici) – che in
modo disinteressato ha coordinato il Collegio di Difesa di Medicina
Democratica, dei Sindacati A.L.L.C.A. e C.U.B. e delle altre Parti Civili
associate, partecipando fattivamente a tutte le udienze del processo di primo e
secondo grado con qualificati contributi professionali.
Alla pubblicazione delle
motivazioni della sentenza, la C.U.B. e l’A.LL.C.A.– C.U.B. si impegnano a
promuovere un convegno a Milano per fare il consuntivo di questa storica
esperienza umana, civile, culturale e giuridica, e per trarre dalla stessa
utili indicazioni per le future lotte sindacali.
Milano, 20 Dicembre 2004
La sentenza del 15.12.2004 della
corte d’appello di Venezia
FATTO E DIRITTO
Con sentenza in data 2/11/2001 del Tribunale di Venezia, gli
imputati venivano assolti, nei termini in epigrafe riportati, in ordine ai
reati ascritti in rubrica.
Circa il primo capo d’imputazione, ricordava il predetto
giudice in premessa della sentenza che, così come già esposto dal P.M. nella sua
esposizione introduttiva illustrata all'udienza del 29 maggio 1998, le indagini
avevano preso avvio a seguito di un esposto presentato da Gabriele Bortolozzo
componente del comitato di redazione della rivista Medicina Democratica, che
segnalava la produzione presso il petrolchimico di Porto Marghera di una
sostanza chimica denominata CVM riconosciuta cancerogena dalla organizzazione
mondiale della sanità (OMS) e dalla Comunità Economica Europea che aveva
provocato la morte per tumore di 120 lavoratori, addetti alla lavorazione nella
filiera del cloro, che indicava nominativamente. Un altro esposto era stato
trasmesso all'autorità giudiziaria dallo stesso Bortolozzo in data 6/5/1985 in cui già allora
denunciava il pericolo derivante dalla
esposizione al cloruro di polivinile,
ma che non aveva dato seguito a nessuna indagine e di cui era stata disposta la
archiviazione.
Dai primi elementi raccolti e da una consulenza orientativa
affidata al professor Carnevale risultava che
37 dei 120 lavoratori segnalati
dal Bortolozzo erano affetti da patologie correlate alla esposizione al
CVM-PVC. Si sviluppava allora un’ampia attività di indagine con acquisizione
della documentazione scientifica in materia ed espletamento di specifici
accertamenti, pervenendo il P.M. alla conclusione che sulla base degli
esaminati studi sperimentali ed accertamenti medici effettuati nelle industrie di lavorazione di tali sostanze, sarebbe risultato che i
primi sospetti di tossicità risalivano agli anni '40 e '50 e che la cancerogenità era stata segnalata per la prima volta dal dottore Gian Luigi
Viola, medico di fabbrica della industria Solvay di Rosignano, nel 1969.e
confermata dagli studi sperimentali che
la Montedison affidò al professor
Cesare Maltoni, noto oncologo, i cui primi
risultati furono comunicati ai committenti nel 1972 e alla comunità scientifica
nel l974, quando oramai era stata data notizia della morte di lavoratori
addetti alla produzione di CVM
dipendenti della società statunitense Goodrich per angiosarcoma epatico,
identico tumore individuato dal professor Maltoni nei suoi esperimenti sui ratti. Sia in America che in Italia si
rivalutarono alloro le patologie tumorali di taluni lavoratori nel frattempo
deceduti che vennero riclassificati come angiosarcomi epatici, rara forma
tumorale che venne associata alla esposizione al c v m.
Tale esposizione venne altresì correlata dalla agenzia per
il cancro (IARC) nelle monografie pubblicate nel 1974, 1979, 1987, ai tumori al
fegato, ai polmoni, all'encefalo, e al sistema emolinfopoietico, individuando
evidenze anche per i tumori della
laringe in particolare per i lavoratori addetti all'insacco del PVC che erano,
insieme agli autoclavisti, i più esposti al cvm. Pur a fronte di tali evidenze,
secondo il P.M., e nonostante le pressioni sindacali, protrattesi fino al 1977, che ebbero come risultato
l'indagine dell‘Istituto di Medicina del Lavoro di Padova e che invocavano una
drastica riduzione della concentrazione del c v m negli ambienti di lavoro, la
Montedison non operò quegli interventi sugli impianti necessari a raggiungere
tale obiettivo, anche approfittando della crisi economica che indusse il
sindacato alla moderazione sui temi della nocività e della salute a fronte del ricatto occupazionale .
Né le successive
vicende societarie, che porteranno nel 1987 Enichem a subentrare a Montedison
nella gestione degli impianti di produzione del c v m, determinarono
sostanziali mutamenti . Si sosteneva in particolare che i risultati degli
accertamenti disposti sui sistemi di controllo per monitorare l'ambiente di
lavoro, attuati dall’azienda mediante la installazione dei gascromatografi
monoterminali, avevano evidenziato la loro inadeguatezza e inaffidabilità,
poiché era risultato possibile alterare i dati con assoluta facilità, sicché
l'abbattimento dei valori di concentrazione che appariva dai tabulati di tali
apparecchiature era da considerarsi fittizio, non essendo neppure giustificato
dagli interventi effettuati sugli impianti ritenuti del tutto insufficienti e
inadeguati.
E così, nel primo capo di imputazione vengono
contestati i reati di lesioni e di omicidio colposo plurimi anche come
conseguenza della omissione dolosa di cautele e di dispositivi diretti a
prevenire il verificarsi di eventi
lesivi o di danno dei singoli lavoratori
esposti alla produzione del CVM - PVC (art. 437 co2 c p) nonché il reato
di disastro innominato (art. 434 co2 e 449 c p) per la gravità, l'estensione e
la diffusività del pericolo per la pubblica incolumità e, in particolare, per
la vita e l'integrità fisica della collettività operaia del petrolchimico.
Veniva altresì contestato il delitto di strage colposa che secondo l’accusa
doveva ritenersi punito dall'articolo 449 in riferimento all'articolo 422
codice penale. Si attribuiva in particolare rilevanza unitaria a condotte
protrattesi per circa trent'anni (dal 1969 al 2000), mediante la contestazione
della cooperazione colposa tra gli imputati che avevano ricoperto posizioni di
garanzia e altresì mediante la contestazione della continuazione.
L’ ipotesi accusatoria sceglieva quindi un modello
unitario di qualificazione della fattispecie concorsuale nella forma colposa ex
art.113 cp, ponendosi quindi l’obbiettivo di dimostrare non solo che tra gli
imputati vi era piena e reciproca consapevolezza di condotte inosservanti i
precetti volti a prevenire gli eventi tipici, ma altresì che gli effetti
penalmente rilevanti delle proprie condotte si ricollegavano a quelli causati
dalle condotte di chi precedentemente aveva rivestito un ruolo di garanzia, nel
comune perseguimento di un medesimo disegno criminoso che portava alla con
contestazione della continuazione (interna ed esterna) tra tutti i reati,
assumendosi che “il disastro è unico e riguarda sia il primo che il secondo
capo di accusa in quanto l’attività di industria ha esplicato i suoi effetti
dannosi sia all’interno che all’esterno della fabbrica”, e con addebito agli
imputati della previsione dell’evento ex art. 61 n°3 cp.
A fronte di tale generale quadro di accusa, le difese
degli imputati, sempre come ricordato dal Tribunale, ponevano in rilievo che
successivamente alla pubblicazione delle monografie di IARC del 1978 e del 1987
era stata pubblicata nel 1991 da Simonato e altri , sempre nell’ambito di detta
Agenzia, uno studio multicentrico europeo i cui risultati epidemiologici
differivano dalle precedenti indicazioni cui aveva fatto riferimento il PM e
concludevano affermando che l'ipotesi relativa agli effetti cancerogeni sul
polmone, sul cervello e sul sistema emolinfopoietico non risultava confermata.
Precisavano ulteriormente le difese che sia l'organizzazione mondiale della
sanità che la commissione europea avevano concluso che l'unico organo bersaglio
del c v m è il fegato e l'unico tumore associabile all'esposizione a tale
sostanza è l' angiosarcoma epatico.
Anche per i tumori al polmone associati ad
esposizione al PVC, cui in particolare erano interessati gli insaccatori, i
risultati degli studi e cui si era riferito il pubblico ministero non sarebbero
stati confermati da studi successivi. Si contestava comunque che gli studi
epidemiologici cui aveva fatto riferimento prevalentemente il pubblico
ministero fossero sufficienti all'accertamento del nesso di causalità che
necessitava di una legge di copertura scientifica universale o di elevata
significatività statistica.
Si sosteneva infine che, allorquando ebbe a
manifestarsi la cancerogenità e tossicità del CVM, tra la fine del 1973 e gli inizi del 1974, gli impianti ebbero a
subire urgenti e rilevanti modifiche.
Si concludeva affermando che proprio i risultati di tali interventi
determinarono sin dal 1974 una drastica riduzione delle concentrazioni: dai 500
ppm degli anni 50- 60 sino raggiungere nel 1975 concentrazioni al di sotto del
valore soglia : dapprima fissato in 50 ppm e successivamente stabilito in 3
ppm con DPR n° 962 del 1982 .
Concentrazioni che risultavano documentate dai
bollettini di analisi e dai tabulati dei gascromatografi installati in
quell'anno (1975) la cui affidabilità era confermata anche dai dati rilevati nei mesi precedenti mediante i
misuratori personali che indicavano un trend in progressiva diminuzione. La
configurazione della imputazione ha poi indotto le difese a individuarne le
caratteristiche in una sorta di “massificazione delle condotte”, espresse in
termini impersonali e cronologicamente indifferenziati, che “si compattano
attraverso meccanismi di accumulo, concentrazione e sovrapposizione in guisa
tale da far emergere non singoli, specifici comportamenti ascrivibili a questo
o a quel soggetto, ma a una sorta di politica di impresa riferibile all’ente
societario in quanto tale”.
Questi, puntualizzava il Tribunale, i temi dibattuti
nel corso della lunga istruttoria dibattimentale, durante la quale,
relativamente al 1° capo di imputazione, sono stati sentiti numerosi consulenti
introdotti dalle parti processuali, esperti non solo in epidemiologia e in
medicina legale, ma altresì in biologia, in genetica molecolare, in
tossicologia, in chimica industriale, in ingegneria impiantistica; inoltre sono
stati escussi numerosi testi in particolare sulle condizioni ambientali dei
luoghi di lavoro, sulle modificazioni
impiantistiche intervenute e sui
risultati ottenuti.
Il Tribunale, nell’affrontare le problematiche poste
dal primo capo di imputazione, ha ritenuto di trattare separatamente, pur a
fronte di condotte casualmente orientate, il problema del nesso di
condizionamento tra le condotte e gli eventi contestati e gli addebiti di colpa
rimproverati, occupandosi preliminarmente dell'accertamento del nesso causale
tra esposizione a CVM-PVC e l'insorgenza delle malattie e dei tumori agli
organi o apparati che sono stati individuati come " il bersaglio " di tali sostanze.
Si è soffermato quindi sulle caratteristiche chimiche
e tossiche e cancerogene del CVM-PVC, ritenendo che, sulla scorta dell’evidenza
probatoria e valutati gli studi e conoscenze scientifiche che negli anni si
erano sviluppate, all'inizio della produzione industriale del PVC,
mediante la polimerizzazione del
monomero, la principale preoccupazione
che si nutriva era legata alla idoneità della sostanza gassosa di
causare miscele esplosive con l'aria a concentrazioni di circa 30.000 ppm; per
contro era considerato scarsamente
tossico tanto che fu impiegato come gas
anestetico ed utilizzato come propellente per spray fino ai primi anni '70, e
che in tale contesto di conoscenze furono condotti i primi studi sulla
tossicità del cvm che ebbero attenzione agli effetti conseguenti ad esposizioni
a dosi molto elevate. Analiticamente quindi si soffermava su quelle che erano
le conoscenze scientifiche degli anni ‘60 – ’70, richiamando già i primi studi
negli anni ’30 negli Stati Uniti e poi gli studi in Europa -Mastromatteo e altri 1960, Torkelson 1961,
Popow 1965, Suciu e altri 1967 - e soffermandosi sugli gli studi di VIOLA e
MALTONI.
Pier Luigi Viola era un medico di fabbrica della
Solvay di Rosignano, che presentò nel 1969 a Tokyo, nell'ambito di un congresso
di medici del lavoro, i dati relativi ad una sperimentazione sugli animali in
cui aveva individuato lesioni polmonari, emorragia addominale, lesioni al
cervello, fegato ingrossato, lesioni osteolitiche e alterazioni degenerative
del tessuto connettivo; lesioni di uguale
genere vennero osservate in ratti esposti a 30.000 ppm per 12 mesi in un
successivo studio realizzato con il prof. Caputo dell'Istituto Regina Elena di
Roma. Tali studi di Viola sugli animali erano stati provocati dalla
osservazione sui lavoratori addetti alla pulizia delle autoclavi di casi di
osteolisi e di alterazioni vascolari alle estremità, tipiche del fenomeno di
Raynaud, dato emergente dal rapporto
Suciu e altri pubblicato nel 1967 dopo che già a metà degli anni
sessanta erano state accertate e pubblicizzate insorgenze nelle fabbriche
americane di Sindromi di Raynaud e acrosteolisi causate dal contatto con la
sostanza.
A parte tali patologie, riteneva però il Trtibunale
che detti studi ancora non acclarassero scientificamente la cancerogenità per
l’uomo del cvm-PVC, cui si pervenne solo a seguito degli studi del prof.
Maltoni incaricato proprio da Montedison dopo l’allarme lanciato da Viola, ed a
seguito dell’accertamento, nel gennaio 1974, presso la Goodrich Company di tre
casi di angiosarcomi in operai addetti alla produzione del cvm, e, nei mesi
successivi, di altri casi presso altre industrie americane.
La valutazione degli studi e diffusione delle
conoscenze scientifiche in quegli anni (1970-1974), e delle testimonianze sul
punto, porta il Tribunale a ritenere:
1) che determinanti per la conoscenza della cancerogenità
furono i risultati sperimentali di Maltoni (e non quelli di Viola reputati
inadeguati sia per il numero ridotto degli animali sia per le elevate
esposizioni sia per i risultati che avevano individuato i tumori nella pelle e
nei polmoni e non già angiosarcomi);
2) che le alte esposizioni degli anni '50 - '60
avevano provocato, oltreché effetti tossici ( svenimenti e nausee) anche casi
di acrosteolisi tra gli addetti alla pulizia delle autoclavi e il dottor Viola
era stato incaricato di approfondire sperimentalmente le cause di tale malattia
senza mai essere ostacolato in queste ricerche neppure quando pervenne alla
scoperta delle lesioni tumorali che, anzi, furono il dato preoccupante che
sollecitò l'approfondimento affidato a Maltoni;
3) che i dati degli esperimenti di Maltoni
circolarono tra il gruppo europeo e il gruppo americano che fu altresì autorizzato a visitare il
laboratorio di Maltoni e a controllare i protocolli sperimentali;
4) che i risultati, ancorché parziali, furono
comunicati all'esterno da Maltoni non solo alla comunità scientifica al
convegno di Bologna dell' aprile del 1973, ma altresì a tutte le istituzioni
pubbliche, e che le clausole di riservatezza, poste per finalità di controllo
tra il gruppo europeo e il gruppo americano, non resistettero all'evidenza e si ridussero alla fine in una moratoria di
15 giorni richiesta dagli europei per una contemporanea comunicazione dei
risultati alle istituzioni governative e ciò ancora prima che la Goodrich
evidenziasse i primi casi di angiosarcoma accertati su propri dipendenti
deceduti;
5) che già si poneva al centro dell'attenzione la
individuazione di soglie di non effetto per l'uomo cui le imprese dovevano
adeguarsi (Maltoni in udienza ha precisato questo aspetto, affermando che in un
processo stocastico quale è la cancerogenesi teoricamente una soglia
biologicamente accettabile non esiste anche se può essere ricercata una soglia
socialmente accettabile).
Tali elementi, secondo il Tribunale, smentivano
altresì la tesi del P.M. del patto di segretezza tra le industrie del settore
in ordine alla diffusione della notizia della cancerogenità del cvm, patto che
non avrebbe in realtà avuto la finalità di occultare i dati della ricerca, ma
era piuttosto finalizzato ad un reciproco controllo tra le imprese interessate
in ordine alla pubblicizzazione dei dati per evitare il rischio di essere posti
fuori mercato o comunque di ritrovarsi in gravi difficoltà operative a seguito
di iniziative unilaterali e non concordate.
E comunque la clausola di riservatezza sarebbe rimasta di fatto inosservata come
risulterebbe inequivocabilmente dagli avvenimenti, oltre che dalle documentate
e riscontrate dichiarazioni di Maltoni, posto che lo stesso diffuse
pubblicamente i risultati delle sue ricerche nel convegno di Bologna tenutosi
nell'aprile del 1973 di cui furono partecipi la comunità scientifica e le
pubbliche istituzioni.
Osserva dunque il Tribunale come dal 1974 ha inizio
un’ampia revisione delle diagnosi per
decessi di lavoratori dell’industria di polimerizzazione con tumore al fegato e
vengono accertati casi di angiosarcoma che per la sua rarità era anche di
difficile identificazione. A tal punto resterebbe acclarato che: il cvm è
oncogeno per l’uomo, onde gli interventi delle Agenzie (EPA, WHO, ACGH, IARC
che classificano appunto il CVM come sostanza cancerogena per l'uomo e la
inseriscono in categoria 1) e la fissazione di limiti di esposizione lavorativa
richiamati in sentenza.
In particolare, ricorda il Tribunale come in Italia,
dove i contratti collettivi di lavoro erano soliti recepire i valori indicati
dalla A.C.G.I.H. (America Conference Governemental Industrial Hygienists) - che
sino a tutto il 1974 mantiene un valore di 200 ppm come media giornaliera - nel
contratto collettivo di data 12/12/1969 si raccomanda un MAC di 500 ppm e in
quello successivo del 31 ottobre 1972 viene indicato come proposta da adottarsi
il valore di 200 ppm come valore limite di soglia riferito alla media delle
concentrazioni per una giornata lavorativa di 7 o 8 ore per una settimana di 40
ore e tale valore viene adottato anche nel contratto collettivo di data 17
aprile 1976 anche se la definizione di un valore adeguato alla accertata
cancerogenità per l'uomo è in corso di individuazione .
Solo con il contratto collettivo del 23 luglio
1979 il limite di soglia TLV-TWA viene
fissato in 5 ppm . Tale valore è definito come la “concentrazione media
ponderale in una normale giornata lavorativa di 8 ore o in una settimana di 40
ore, a cui praticamente tutti i lavoratori possono essere ripetutamente
esposti, giorno dopo giorno, senza effetti”. Si precisa inoltre che il Ministro
del Lavoro nell'aprile del 1974- su proposta e sollecitazione del prof Maltoni-
aveva emanato una raccomandazione di non superamento del valore di 50 ppm TVL
come valore di riferimento tendenziale. E solo con la direttiva CEE n°
610/78 recepita con DPR n°962/82 i
valori vengono ridotti a 3 ppm peraltro come media annuale.
Passa quindi in rassegna il Tribunale gli studi
epidemiologici e sperimentali in materia e la loro valutazione scientifica in
primo della IARC cui hanno fatto principalmente riferimento i consulenti del
P.M., ma poi attestandosi sui successivi studi epidemiologici che mettevano in
discussione le comclusioni di IARC 1987.Si ricorda come IARC avesse effettuato
tre diverse valutazioni della cancerogenità del CVM , nel 1974, nel 1979 e nel
1987 e tale sostanza è stata oggetto anche di rapporti interni nel 1975 e nel 1989 e le conclusioni di
ques’ultimo anticipano i risultati dello studio epidemiologico multicentrico
europeo del 1991 coordinato dal dott. Simionato al quale, nel corso
dell'istruttoria dibattimentale, è sopravvenuto l'aggiornamento curato da Ward
nel 2000 e di cui ha riferito in aula il dott . Boffetta che ne è coautore.
La monografia del 1974 prende in esame, ai fini della
valutazione del rischio cancerogeno
nell'uomo, i risultati delle sperimentazioni di Maltoni e di Viola cui si è già fatto riferimento.
Riferisce che la prima associazione tra esposizione al c v m e lo sviluppo del cancro è stata avanzata da Creech e Jonnshon nel
1974 che avevano osservato tre casi di angiosarcoma del fegato in operai che
lavoravano a contatto con questa sostanza (si tratta dei lavoratori dellaGoodrich).
Riferisce inoltre che
dall'esame dei registri medici e da una analisi del materiale patologico erano
stati scoperti altri dieci angiosarcomi
in lavoratori addetti alla lavorazione del c v m e il tempo intercorso tra la
prima esposizione e la diagnosi del tumore andava dai 12 ai 29 anni e la durata
complessiva dell'attività aveva comportato una esposizione di 18 anni (Heath e
altri 1974). Precisa inoltre che nello stesso stabilimento erano stati
accertati 48 casi di malattie del fegato non maligni in esposti mediamente da oltre vent'anni e che dalla biopsia era
stata riscontrata una fibrosi portale e noduli della fibrosi subcapsulare.
Altri studi
avevano accertato, tra la metà e la fine degli anni ‘60 l'insorgere
di acrosteolisi generalmente
localizzata nelle falangi distali delle mani negli addetti alla pulizia delle
autoclavi. Nei lavoratori addetti a tali mansioni, i più esposti alle alte
concentrazioni, in uno stabilimento per la produzione di PVC in Germania,
sottoposti a test di funzionalità epatica e a esame istologico dei frammenti di
biopsia epatica, è stata rilevata splenomegalia , epatomegalia e fibrosi portale ovvero fibrosi della
capsula del fegato . Sulla base di tali dati - che erano quelli conosciuti alla
data del 26 giugno1974 - la valutazione dell'agenzia era la seguente:
“considerata l'estrema rarità dell’angiosarcoma del fegato nella popolazione
comune, il riscontro di 16 casi in lavoratori esposti al c v m prova che c'è
una relazione causale".
In conclusione la prima valutazione sulla base dei
pochi dati sperimentali e della scarsa casistica di osservazione sull'uomo
indicava una relazione causale tra l'esposizione al c v m e l’angiosarcoma
epatico e la presenza di fibrosi
portale e subcapsulare ; infine individuava
l‘insorgere di acrosteolisi nei lavoratori addetti alla pulizia delle
autoclavi.
La successiva monografia pubblicata nel febbraio del
1979, sulla base di ulteriori ricerche sperimentali e, in particolare, di studi
epidemiologici, così concludeva per quanto riguarda i risultati sperimentali in
topi, ratti e criceti: " il cloruro di vinile si rivelava cancerogeno in
tutte e tre le specie e produceva tumori in vari siti compreso l’angiosarcoma
del fegato...... È stata dimostrata la relazione dose –risposta”. Per quanto
concerne l'uomo si affermava che " i vari studi tra loro indipendenti, ma
i cui risultati si confermavano a vicenda, hanno dimostrato
che l'esposizione al cloruro di vinile comporta un aumento del rischio cancerogeno
negli umani riguardante il fegato, il cervello, i polmoni e il sistema emolinfopoietico".
Si concludeva pertanto per la cancerogenità del c v m
per l'uomo indicando quali organi preferiti il fegato, il cervello, i polmoni e
il sistema emolinfopoietico. Per quanto riguarda l'effetto dose-risposta si
affermava che "nonostante dai
gruppi di lavoratori esposti ad alte dosi di c v m si sia avuta la prova della
cancerogenità del c v m per l'uomo, tuttavia non si ha la prova del fatto che
esiste un livello di esposizione al di sotto del quale non si verifichi un
incremento del rischio di cancro nell'uomo". Si affermava infine che gli
studi esistenti sul p v c non erano sufficienti a stabilire la cancerogenità di
tale composto.
Con la valutazione del 1987 si afferma che in un gran
numero di studi gli epidemiologici hanno comprovato il rapporto causale
esistente tra il cloruro di vinile e l'angiosarcoma del fegato . Numerosi studi
inoltre confermano che l'esposizione al cloruro di vinile causa altre forme di
cancro e cioè il carcinoma epatocellulare, tumori al cervello, tumori al polmone
e tumori del sistema linfatico- ematopoietico. Si afferma inoltre che in uno
studio (Waxvejler) l'esposizione alla polvere di PVC è stata associata all'aumento della incidenza del tumore al
polmone e gli autori hanno pensato che
il responsabile fosse il c v m intrappolato.
Peraltro l'agenzia continua a classificare il PVC nel
gruppo 3 per la inadeguata evidenza di cancerogenità sia per l'uomo che per gli
animali da esperimento.
Osserva peraltro il Tribunale come tali conclusioni
di IARC 1987, alle quali i consulenti medico-legali della accusa si sarebbero
principalmente riferiti ai fini di ritenere le patologie discusse correlabili o
meno con l'esposizione a c v m o PVC,
siano state poste in discussione dagli
studi epidemiologici successivi. In particolare dallo studio multicentrico
europeo coordinato da IARC e condotto da Simonato e altri (1991) e dallo studio
sulle coorti americane condotto da Wong (1991) i quali saranno successivamente
aggiornati rispettivamente da Ward (2000) e da Mundt (1999).
Nell’analizzare tali studi il tribunale ricorda come
nel primo si fosse concluso che non sussiste alcuna associazione tra
esposizione a cvm e i tre organi bersaglio diversi dal fegato (polmone,
cervello, sistema linfatico), mentre per il cancro del fegato l’analisi basata
sulle variabili temporali ha rivelato eccessi statisticamente rilevanti nel
periodo di assunzione 1945 - 1954 e 1955- 1964 mentre è stata osservata una
diminuzione del rischio per quelli assunti negli ultimi anni ‘60 e nei primi
anni '70 anche se viene precisato che il tempo di osservazione è troppo corto
per poter valutare il rischio per i lavoratori assunti recentemente.
La mortalità da cancro del fegato, secondo il tipo di
lavoro, distingue i lavoratori addetti all'autoclave fra i " sempre "
e gli " altri " e dimostra che l'aumento del rischio è concentrato
fra coloro che hanno lavorato all'autoclave in ogni momento (" sempre"). Ma si evidenziava
altresì che per i lavoratori con 15 o più anni dalla prima esposizione (15 anni
di latenza) un aumento del rischio statisticamente significativo compare anche
per quelli classificati come " altri ". Onde l’'analisi dei decessi
da cancro del fegato basata sulla esposizione cumulativa rivela un rischio
crescente con l'aumento dell'esposizione e con una consistente relazione
esposizione – risposta, e per tutti i decessi da cancro al fegato la latenza
varia da 16 a 33 anni con una media di 24 anni mentre la durata media
dell'esposizione è di 18 anni (da 16 a 33 anni).
In proposito riteneva il Tribunale importante
rilevare che l'anno di assunzione e' soprattutto ricompreso nell'ambito degli
anni anni 50 (solo 6 negli anni 60 e 2 negli anni 40); e che veniva rilevata
una tendenza verso una diminuzione del rischio per quelli assunti negli ultimi
anni ’60 e nei primi anni ’70, sebbene si precisi che il tempo di assunzione
era ancora troppo corto per poter valutare il rischio per i lavoratori assunti
recentemente. Inoltre sono molto chiare le relazioni esposizione - risposta fra
l'esposizione cumulativa al c v m e rischio di cancro del fegato e angiosarcomi. Distinguendo, invece, l'
angiosarcoma dalle altre neoplasie del fegato il rapporto di queste ultime era
pressoché sovrapponibile all'atteso.
Questa osservazione assume, secondo il Tribunale,
particolare rilievo nella controversa discussione in ordine alla associazione
cvm-epatocarcinoma, e si ricorda che nelle considerazioni conclusive si afferma
che i risultati dello studio confermano l'associazione fra cancro del fegato e
l'esposizione al c v m: l'eccesso di mortalità-quasi il triplo con 24 osservati
e 8.4 attesi (RSM 2,86)- è associato con la durata dell'impiego e con il
livello delle esposizioni e i risultati sono rafforzati dalle analisi di
regressione che indicano che il rischio di cancro del fegato dipende
significativamente dall'esposizione cumulativa e dagli anni trascorsi dalla
prima esposizione.
Si osserva poi come l'aggiornamento dello studio
multicentrico europeo (di Ward - Boffetta e altri 2000).ha esteso per gli anni
90 l'accertamento dello stato in vita dei lavoratori di 17 delle 19 aziende
incluse nello studio: l'aggiornamento della mortalità e dell'incidenza varia
dall'anno 1993 all'anno 1997. ed è stata pressochè identica a quella attesa
(RSM 0,99), leggermente inferiore a quella dello studio precedente. Nessun angiosarcoma si è verificato tra gli
operai assunti dopo il 1973 e non si era verificato alcun decesso per cancro
del fegato prima che fossero trascorsi 15 anni dalla prima esposizione.
Inoltre, neppure nel predetto aggiornamento della corte
europea si è rilevata alcuna
associazione tra esposizione al c v m e mortalità per cancro del polmone,
sottolineandosi tuttavia che quando le analisi vengono ristrette a quei
soggetti che avevano soltanto ricoperto mansioni relative all'insacco si
nota un trend significativo per il cancro del polmone con l 'aumentare
dell'esposizione cumulativa al cvm. Si aggiunge che lo studio non ha rilevato
prove di un aumento di mortalità dovuta a tutte le malattie del sistema
respiratorio (pneumoconiosi, bronchite, enfisema, asma) e neppure alcuna indicazione di un aumento di
mortalità per malattie respiratorie più specificamente tra i lavoratori addetti
all' insacco o al miscelamento ancorché si precisi che tali risultati non
contraddicono studi incrociati (Mastrangelo e altri) poiché è possibile che gli
effetti respiratori dell'esposizione e al c v m o alla polvere di PVC non
conducano alla morte.
Così, ancora nell’aggiornamento Ward, neppure si
presenta un eccesso statisticamente significativo di cancro al cervello, ed
altrettanto si conclude per i tumori del sistema emolinfopoietico.
Si analizzano poi gli studi della coorte USA, in
particolare Wong -1991; Mundt -2000). L'aggiornamento di Mundt, più
informativo, individua l'esistenza di una associazione tra esposizione a cvm e
aumentata insorgenza di tumori del fegato; indica la insussistenza di una
associazione tra esposizione a c v m e insorgenza di tumori del polmone.
Nel commentare i risultati dello studio, gli autori
affermano che le cause di morte per tumore già segnalate non sono risultate in
eccesso e tra di esse il tumore del polmone e i tumori emolinfopoietici e
altresì le malattie respiratorie quale enfisema e pneumoconiosi. Viene inoltre
precisato che l'associazione tra esposizione a cloruro di vinile e tumore del
polmone non ha trovato alcuna evidenza
e pertanto non è suggerito neppure un piccolo rischio. Per il tumore al
cervello si afferma che la associazione è incerta perché le elevate età al
primo impiego nell'industria del c v m suggeriscono che i lavoratori potrebbero
avere avuto rilevanti esposizioni ad altri cancerogeni prima dell'esposizione
al cvm.
Si afferma in conclusione che lo studio ha confermato
una forte associazione tra durata dell'esposizione lavorativa prima del 1974 e
tumori del fegato per la gran parte dovuta
ad un grande eccesso di angiosarcomi.
Richiama poi il Tribunale gli studi epidemiologici e
sperimentali che hanno affrontato il problema della eventuale associazione tra
esposizione a PVC e insorgenza di tumori, in particolare all'apparato
respiratorio e al polmone, nei lavoratori che abbiano svolto sempre o
prevalentemente la mansione di insaccattori, studi che in conclusione ritiene
indichino che il p v c ha una scarsa o
assente attività biologica e la sua presenza fisica nei polmoni produce
pneumoconiosi benigne.
Partendo dall'ipotesi che l'esposizione a polvere di
PVC possa dar luogo a una aumentata insorgenza di tumori del polmone, avanzata
da Waxweiler (1981) che suggeriva l'idea che l'eccesso osservato fosse da
attribuire non tanto alla polvere di PVC bensì al c v m intrappolato nella
polvere, il tribunale richiama i successivi non confermativi studi di
Storevedt-Heldaas che riscontra un eccesso solo apparente, di Jones ( 1987) che
indica un chiaro difetto per la mansione di insaccattore, di Wu (1989), che
esamina la stessa corte di Waxweiler (quattro impianti di polimerizzazione in
attività da almeno 15 anni in uno stabilimento di sintesi di sostanze chimiche
con un totale di 3635 rispetto ai 1294 lavoratori precedentemente considerati
con almeno cinque anni di esposizione e dieci anni di latenza in aree e
mansioni con esposizione a c v m nel periodo 1942-1973, e che non accerta
nessun eccesso escludendo ogni relazione tra esposizione a polveri di PVC e
tumore del polmone; di Comba- Pirastu e Chellini in cui viene invece
evidenziato un eccesso per la mansione di insaccattori, peraltro con un
andamento per latenza decrescente contrario, secondo il Tribunale, ad una
spiegazione di natura eziologica d’altra parte non avvalorata neppure dalle
sperimentazioni.
Si ricorda poi che in particolare
sugli insaccattori di Porto Marghera sono stati condotti tre studi: una analisi di mortalità degli
insaccattori dipendenti di Montedison Enichem, una analisi di mortalità degli
insaccattori appartenenti a cooperative esterne che hanno lavorato in appalto e
infine su questi lavoratori è stato condotto uno studio di prevalenza sulla
morbilità (Chellini), peraltro subito
ponendosi in rilievo alcuni aspetti che hanno incontrato le maggiori critiche:
da un lato la scarsa informatività di detti studi per la esiguità delle
sottocoorti (208 insaccattori dipendenti e 272 appartenenti alle cooperative) e
dall'altro l'inaccettabilità di una analisi congiunta delle due categorie di
insaccattori stante l'assenza di omogeneità dei selezionati e per di più l'età
media elevata di ingresso al lavoro degli appartenenti alle cooperative e lo
svolgimento di attività plurime con possibili differenti esposizioni.
E comunque i rapporti di mortalità,
presenterebbero un andamento di relazione inversa tra la durata della latenza e
l'insorgenza del tumore che, come detto nei precedenti studi già commentati,
depone per l'insussistenza di una associazione. Lo studio di prevalenza della
dottoressa Chellini ha incontrato critiche ancor più radicali inquantoche' non
era stata effettuata alcuna validazione sulla qualità dei dati anamnestici raccolti, posto che le patologie riportate nelle schede fanno
riferimento a malattie diagnosticate nell'arco della vita, e pertanto non sono
correlate alla attività svolta in qualità di insaccatori, venendo così a
mancare la garanzia dell'antecedenza tra esposizione e malattia.
In questi
studi comunque, si afferma che: per quanto riguarda il tumore epatico (sia esso
angiosarcoma o epatcarcinoma) la mortalità ha superato significativamente
quella attesa particolarmente fra gli addetti alle autoclavi e da questa
osservazione si trae la conseguenza che sia di natura causale anche la
relazione fra esposizione a cvm e epatocarcinoma: tale relazione sarebbe anche
plausibile sul piano biologico e sostenuta da una considerazione di tipo
analogico inquantoche' i due altri agenti conosciuti che inducono angiosarcomi epatici (arsenico e thorotrast)
causano anche essi carcinomi epatici (Popper 1978 ).
Per quanto riguarda la mortalità
per tumore polmonare si è osservato un incremento significativo fra gli
insaccattori in considerazione dell'intensità dell'esposizione a c v m , in
particolare fra il 1950 e il 1970 (non
meno di 50 ppm) e tenuto conto che nell'attività dell'insacco del PVC si era in
presenza di elevati livelli di polverosità (in proposito si citano gli autori
di studi che hanno descritto casi di pneumoconiosi insorti in soggetti esposti
a polveri di PVC e tra questi lo studio di Mastrangelo).
Per quanto riguarda gli altri
tumori che secondo IARC 1987 sarebbero
ricollegabili all'esposizione a c v m si osserva che nella corte Montedison
Enichem di Porto Marghera sono stati individuati due casi di tumore dell'encefalo
(SMR 77) e 9 tumori del sistema emolinfopoietico (SMR 134): si riconosce
peraltro la ignota eziologia dei tumori cerebrali che anche gli studi
epidemiologici più ampi non sono stati in grado di ricollegare a specifiche
esposizioni; si riconosce altresì che la categoria dei tumori del sistema
emolinfopoietico comprende entità che hanno caratteristiche nosologiche assai
diverse per le quali sono diversi anche i fattori di rischio ipotizzati.
Si afferma conclusivamente che i risultati relativi a questi due tipi di
tumore devono essere considerati tenendo conto dell'esiguità numerica delle
osservazioni e delle conoscenze disponibili sulla eziologia.
I suddetti dati sarebbero poi
sostanzialmente confermati dalla memoria depositata dai consulenti epidemiologici
del pubblico ministero contenente un aggiornamento della mortalità al 31 luglio
1999, peraltro non sottoposto al contraddittorio dibattimentale e comunque
esaminata e utilizzata dal Tribunale come un approfondimento, proveniente dalla
pubblica accusa, degli studi precedenti. In particolare, sulla base dell'
incremento nel numero di decessi per tumore epatico primitivo accertato nella
coorte di Porto Marghera alla data del luglio 1999 si ribadisce con questo
ulteriore elemento la sussistenza di un eccesso di tumori epatici diversi dall'
angiosarcoma, sia con riguardo ai lavoratori della coorte nel suo complesso che
in maniera ancora più evidente tra coloro che hanno svolto la mansione di
autoclavisti che notoriamente sono stati esposti alle concentrazioni più
elevate. E così sarebbe stato rilevato un eccesso di tumori polmonari
nell'ambito della coorte, con specifico riferimento alla mansione di
insaccattore esposto alle polveri di PVC.
Circa i fattori di confondimento, sia rispetto ai
tumori epatici che a quelli polmonari, i consulenti del pubblico ministero,
facendo ricorso ad un raffronto tra i lavoratori della coorte e i lavoratori di
altri settori (municipalizzata di igiene urbana e amministrazione provinciale
di Venezia) per quanto riguarda la propensione a bere alcolici e individuando
nei primi stime più basse dei consumi alcolici, affermano che l'assunzione di alcol non poteva spiegare
l'incremento di mortalità rilevato per tumori epatici diversi dall’angiosarcoma
sia nella coorte complessiva e sia, a maggior ragione, nella categoria degli
autoclavisti.
Per quanto riguarda il fumo si è fatto invece
riferimento alla percentuale di fumatori nella popolazione italiana (tra il 53
e 75%) che si stimava mediamente uguale
a quella presente tra gli insaccattori e si concludeva che gli incrementi di
mortalità in tali categorie per tumore del polmone non era spiegabile con
l'abitudine al fumo.
Sempre con specifico riferimento ai lavoratori della
corte di Porto Marghera, il professor Diego Martines, consulente del pubblico
ministero, ha presentato uno studio caso- controllo sui lavoratori affetti da
angiosarcoma epatico, epatocarcinoma, cirrosi epatica, e epatopatia cronica.
Sulla scorta dei dati rilevati e riportati in tabella
si evidenzia che per tutte le malattie considerate il rischio non cresce
gradualmente dalla esposizione minore a quella maggiore, bensì si innalza
bruscamente solo nella categoria con esposizione alta. Inoltre il consulente
sottolinea che tutti i casi di angiosarcoma si sono manifestati in quei
lavoratori che subirono la prima esposizione in un arco di tempo molto
ristretto compreso fra il 1955 e il 1967 e ha altresì evidenziato che i tempi
di latenza media sono di 29 anni e il tempo di esposizione media dei lavoratori
che sono stati affetti da angiosarcoma era di 18 anni.
Per quanto riguarda gli epatocarcinomi nella tabella
numero 4 il consulente rileva 13 casi nella categoria ad alta esposizione 1
caso nella categoria a media esposizione e 2 per casi nella categoria a bassa
esposizione. Peraltro per tutti i 3 casi delle categorie bassa e media
esposizione la riferibilità all'esposizione professionale dell'epatocarcinoma
e' messa in dubbio dallo stesso consulente. I 13 casi di epatocarcinomi ad alta
esposizione presentano un tempo di latenza medio dalla prima esposizione pari a
31 anni (range 22 - 42) e la prima esposizione in tutti questi pazienti si è
verificata in un arco ristretto di tempo compreso tra i 1952 e il 1961.
Due
pertanto le conclusioni da trarre: tutti i casi di angiosarcoma e di epatocarcinoma della coorte di Porto
Marghera riguardano soggetti esposti ad alte esposizioni e il tempo di
calendario è tra gli anni '50 e '60.
Nelle
successive precisazioni a seguito dell’osservazione dei consulenti della difesa secondo i quali dalle stesse suddette
conclusioni emergeva la presenza di una soglia di fatto del rischio, sosteneva
il consulente che l'insorgenza di angiosarcoma
anche dopo esposizioni limitate a c v m veniva ad escludere in linea
generale la presenza di una soglia nell'azione del cloruro di vinile sia per la
diversa suscettibilità individuale (genetico e biochimica) al c v m sia per
l'azione tossica sinergica dell'alcol e del cloruro di vinile, in quanto la
responsabilità del consumo di alcol e dei virus B e C nel determinare la cirrosi epatica e
l’epatocarcinoma andava valutata in uno con l’eventuale effetto aggiuntivo o
primario dell'esposizione al c v m.
Si
insisteva dunque nell’affermare che l'esposizione al c v m è in grado di
stimolare la fibrogenesi conseguente al danno epatocellulare provocato dai
fattori eziologici extralavorativi, quali alcool o i virus B e C , e di
innescare e accelerare tutti quegli eventi che portano alla cirrosi, agendo in
tal caso come fattore concausale.
Ricorda poi il Tribunale gli studi caso-controllo dei
consulenti dell’accusa privata, professor Gennaro e professor Mastrangelo,
volti all’approfondimento della relazione tra mortalità per tumore polmonare ed
esposizione alle polveri di PVC.
In particolare Mastrangelo, sulla scorta dei dati
analizzati e delle valutazioni peraltro analiticamente criticate dai consulenti
della difesa, afferma che il fumo non rappresenta un fattore di confondimento
nella associazione tra esposizioni a polveri di PVC e rischio di cancro
polmonare inquantoché, pur essendo il fumo di tabacco una causa di cancro
polmonare, esso non è risultato correlato con le esposizioni a polveri di PVC
nella popolazione in studio, e si ribadisce il concetto della concausalità
sostenendosi che, anche se tutti i casi
esaminati (eccetto uno) erano fumatori e anche se qualcuno di loro era stato
esposto ad altri cancerogeni polmonari prima di lavorare come insaccatore di
PVC a Porto Marghera, la responsabilità della esposizione a polvere di PVC
rimane comunque per il fatto che la sostanza attiva il penultimo stadio della
cancerogenesi, sicché sarebbe pur sempre un agente concausale.
Ricorda al riguardo il Tribunale come il professor
Mastrangelo, nelle precisazioni che ha ritenuto di fare per iscritto rispetto
alle contestazioni cui è stato sottoposto in sede di controesame dai difensori
degli imputati, evidenzia il suo assunto nel modo seguente: entrambe le
sostanze (c v m ePVC) sono cancerogene e la seconda può veicolare la prima;
entrambe provocano la fibrosi polmonare che può indurre a un eccesso di cancro
polmonare.
Si ricordano altresì le obiezioni dei consulenti
della difesa: non solo il prof. Mastrangelo ha proposto proprie ipotesi non
convalidate scientificamente e ha mosso critiche infondate agli studi
epidemiologici che non evidenziano eccessi significativi di tumore polmonare
associato a cvm/PVC, ma la sua ipotesi principale si basa su premesse
destituite di ogni fondamento, in quanto si osserva che il PVC non è di per sé
considerato una sostanza cancerogena , posto che lo IARC lo classifica nel
gruppo 3 proprio per la inadeguata evidenza di cancerogenità per l'uomo e per
l'animale da esperimento, e ancora meno è dimostrato che esso possa indurre
fibrosi polmonare, sicché non può condividersi che la causa di eccessi di
tumore al polmone possa essere il PVC.
Passando alla problematica del rischio da
esposizione, il Tribunale ha ricordato come accusa pubblica e privata hanno
sottoposto all’attenzione del collegio valutazioni di rischio sulla base di
modelli matematici. Al riguardo si evidenzia che: l' E P A ha divulgato due
diverse stime di rischio per l'esposizione a c v m: la prima nel 1994 e la
seconda nel 2000 in cui il rischio è stato stimato di dieci volte più basso
rispetto alla stima precedente.
Si osserva però che le valutazioni dell‘EPA non
intendono stabilire il rischio effettivo o le conseguenze sulla salute per le
persone, ma piuttosto sui rischi potenziali utilizzando i dati sperimentali
sugli animali, ma anche opzioni di default mediante metodologie matematiche di
estrapolazione lineare alle basse dosi per i cancerogeni oppure estrapolazioni
non lineari (e cioè modelli matematici che ammettono una soglia) per le
sostanze non genotossiche, per cui, essendo il cvm considerato genotossico la risposta e il rischio sono nulli solo per
una dose nulla; egualmente l’Unione Europea e l’Organizzazione mondiale della
sanità assumono esplicitamente il principio di assenza di soglie per i
cancerogeni e in Italia la Commissione Consultiva Tossicologica Nazionale ha assunto identica posizione.
La ragione fondamentale della assenza di soglia per i
cancerogeni genotossici deriva dall'osservazione che la relazione tra
formazioni di addotti e dose di regola
è lineare con la dose e la probabilità che una molecola attiva incontri il
punto critico del DNA è proporzionale al numero di molecole presenti. Un
ulteriore argomento, basato su semplici criteri matematici, è quello che in
presenza di un'esposizione di fondo a cancerogeni, una ulteriore piccola esposizione si andrà a collocare nel tratto
lineare della relazione dose- risposta.
Ma l’OMS stima il rischio cancerogeno anche sulla
base di dati epidemiologici e a tal
fine utilizza il parametro della rischio relativo (RR) definito come il
rapporto tra il numero di casi osservato e atteso nella popolazione esposta;
diversamente il centro tossicologico e ecotossilogico europeo dell'industria
chimica (ECETOC 1998), nel rapporto dedicato al cloruro di vinile, nelle sue
conclusioni, specifica che "sebbene non sia possibile stabilire
definitivamente livelli sicuri di esposizione per i cancerogeni genotossici,
l'evidenza presentata in questo rapporto non suggerisce che l'esposizione
lavorativa ai livelli correnti nel rispetto del limite di 3 ppm comporti rischi significativi per la salute
"; il professor Zapponi, consulente tecnico dell'accusa privata Presidenza
del Consiglio e Ministero dell'Ambiente, partendo dalla premessa che non può
essere identificata una soglia per i cancerogeni genotossici non essendo
possibile definire un livello senza effetto,
passa in rassegna le principali stime,
su dati epidemiologici e su dati sperimentali, di rischio cancerogeno
per il c v m, e nelle considerazioni conclusive trae una prima considerazione:
che queste valutazioni di rischio, pur operate da autori diversi e pur
considerando che le diverse stime si basano su diverse categorie di dati
(epidemiologici e sperimentali), pur tuttavia pervengono a risultati molto
simili.
L'indicazione che se ne trae è che una
esposizione lavorativa presumibilmente
priva di un rischio significativo dovrebbe andarsi a collocare a livelli di
frazione relativamente piccole di 1 ppm e l'uso del modello a soglia, pur in
presenza di un cancerogeno genotossico, ha portato a stime di livelli di
esposizione sicura tra 0.1 a e 0.6 ppm che sono valori di un ordine di
grandezza superiori a quelli stimabili con valutazioni di rischio che assumono
l'assenza di soglia;il consiglio nazionale delle ricerche degli Stati Uniti
(NCR), cui è stato chiesto dal congresso americano di valutare l'operato dell'
EPA per quanto attiene la valutazione del rischio, ne ha innanzitutto
individuato l'ambito di applicazione, assumendo che "le stime del rischio
ottenute non sono stime scientifiche del vero rischio di tumore ma sono utili
ai regolatori per stabilire delle priorità di intervento": si tratta cioè
di stime estremamente conservative che ricomprendono opzioni inevitabilmente
politiche di protezione della salute pubblica.
Si evidenzia conseguentemente che le scelte politiche
portano a opzione di default utilizzate ai fini di aggirare il problema
dell'incertezza sui seguenti problemi maggiormente rilevanti:1) mancanza di
dati scientifici che correlino in maniera quantitativa l'esposizione a sostanze
chimiche con i rischi per la salute; 2) divergenze di opinioni all'interno
della comunità scientifica sul livello dell'evidenza scientifica; 3) mancanza
di una conformità nel riportare i risultati delle ricerche; 4) incertezza dei
risultati prodotti dai modelli teorici.
E così, ogni qualvolta il procedimento di valutazione del
rischio si scontra con elementi in cui
il livello di conoscenza scientifica può risultare incompleto, problematico,
discordante, non convincente, è necessario far ricorso a congetture e
semplificazioni, assumendo per l'appunto opzioni di default di cui le più
importanti sono:
1) gli animali da laboratorio sono un surrogato per
gli esseri umani nella valutazione del rischio dei tumori e i risultati
positivi negli esperimenti sono presi come evidenza della capacità di una
sostanza chimica di causare il tumore negli uomini;
2) gli esseri
umani sono sensibili come le più sensibili specie animali;
3) gli agenti che risultano positivi negli
esperimenti a lungo termine sugli animali e che mostrano anche evidenza di
attività promovente devono essere considerati cancerogeni completi;
4) anche una sola molecola della sostanza chimica ha
associata una probabilità di indurre tumori che può essere calcolata mediante
il modello linearizzato multistadio.
Osserva dunque il Tribunale che in realtà nella
comunità scientifica e' messo in discussione soprattutto l'assioma della
equivalenza alte-basse dosi; ed in proposito si ricorda l’affermazione di un
ricercatore di biologia molecolare (Ames) secondo la quale "vi sono sempre
più prove che la scissione cellulare causata dall'alto dosaggio, piuttosto che
dalla sostanza chimica in se', aumenti il tasso di positività poiché ogni volta
che una cellula si divide aumenta la probabilità che si verifichi una mutazione
e così aumentando in tal modo il rischio di tumori”, e si ricordano altresì gli
studi di Swemberg secondo cui a seguito delle sperimentazioni a basse dosi
effettuate "esiste la prova che bassi livelli di esposizione non sono
cancerogeni né per gli uomini né per i roditori".
Onde nella comunità scientifica si propone una
valutazione realistica del rischio che superi il postulato ritenuto estremo e
irrazionale che "nessuna dose è sicura" proprio alla luce dei
risultati sperimentali negativi alle basse dosi e altresì della osservazione
epidemiologica sulla base degli aggiornamenti delle coorti americane ed europee
da cui risulta che nessun lavoratore esposto per la prima volta c v m
rispettivamente dopo 1968 e dopo il 1972 risulta essere affetto da
angiosarcoma, così da far ritenere che
le esposizioni normativamente imposte e osservate sono sufficientemente
protettive ( Storm-1997).
In
conclusione secondo il Tribunale si può affermare che i criteri valutativi che
stanno alla base della valutazione del rischio, che ricorrono spesso a opzioni
di default, che non solo sono indimostrate, ma falsificate anche dai risultati
cui è pervenuta la comunità scientifica, possono tutt’al più essere utilizzati
a fini precauzionali ma non possono essere richiamati a fini conoscitivi in
particolare per accertare quale sia la dose idonea a produrre effetti oncogeni
sull’uomo.
Ad
analoghe conclusioni di incertezza a livello scientifico ai fini di utilizzo
nell’accertamento probatorio del nesso causale, perviene il Tribunale, dopo
avere analiticamente esaminato le posizioni dei consulenti dell’accusa e della
difesa e gli specifici studi della comunità scientifica internazionale, in
ordine al tema dei meccanismi molecolari e della carcinogenesi, sia
relativamente alla problematica della soglia che alla problematica degli organi
bersaglio.
Quanto
alla soglia, rimarca inoltre il Tribunale i risultati dello studio di Storm e
Rozman ( 1997) che ha esaminato 80 mila lavoratori esposti ai bassi livelli
dopo il 1968 negli Stati Uniti e dopo il 1972 in Europa e non ha osservato
alcun angiosarcoma, e che conclude ammettendo l'esistenza di una soglia che
resta avvalorata dalla considerazione delle informazioni derivanti dagli studi
epidemiologici e dagli stessi registri internazionali dei casi di tumore da cui
risulta per l'appunto che negli Stati Uniti non era stato accertato alcun
angiosarcoma nei lavoratori esposti per la prima volta al c v m a partire dal
1968, pervenendo gli autori alla conclusione che la riduzione delle esposizioni
entro il range e 0. 5 - 5 ppm possa ritenersi adeguatamente protettiva.
Gli
autori mettono anche in discussione l'ipotesi di default che l'uomo abbia una
suscettibilità alla angiosarcoma indotto da c v m pari a quella dei ratti
esposti: infatti non solo l'uomo sarebbe meno sensibile dei ratti ai
cancerogeni genetici in generale a causa della durata di vita più lunga, della
minore velocità del suo metabolismo basale e delle maggiori capacità di
riparazione del DNA, ma anche perché dai risultati sperimentali è stata
osservata un'incidenza di angiosarcomi tra i ratti almeno 100 volte superiore
rispetto all'uomo esposto al c v m e nell'ambiente di lavoro.
Da
parte del Tribunale si constata che tali ipotesi hanno il pregio di essere
compatibili con i dati epidemiologici disponibili, mentre le ipotesi
dell'assenza di soglia e della suscettibilità dell'uomo uguale o minore a
quella degli animali non hanno tale supporto e, anzi, si basano su postulati
che possono avere validità in un ambito prettamente precauzionale, ma sono
smentiti dall’osservazione scientifica, potendosi concludere pertanto che i
risultati delle osservazioni epidemiologiche e dei dati sperimentali proprio
perché convergenti hanno una loro
rilevanza sotto il profilo probatorio della presenza di una soglia di non
effetto del cvm o di una sua idoneità lesiva solo a concentrazioni di una qual
certa entità e che vengono individuati in 10 ppm (Swemberg), atteso che
peraltro dagli studi analizzati non emerge alcun dato dal quale ricavare che le
basse dosi vigenti successivamente alla oncogenità del c v m abbiano avuto un
qualsiasi effetto su incidenza, latenza o progressione dell’ angiosarcoma.
Comunque, sulla base delle opinioni espresse dai consulenti delle parti e dell'ampia
letteratura cui hanno fatto riferimento, il tribunale rileva come gli approdi
scientifici siano ancora parziali e non sempre coerenti con le ipotesi assunte,
sicchè appare difficile poter affermare che si siano raggiunti risultati di
conoscenza in base ai quali poter affermare che sussiste un meccanismo
specifico di azione del cvm nella causazione dei tumori.
Si evidenzia al riguardo che l' oncogenesi è una
scienza in rapida evoluzione, come e' messo in rilievo dai risultati degli
studi sperimentali o osservazionali
sopra riferiti, e non sempre i protocolli sperimentali sono basati su modelli
comuni. E' ancora in discussione il modello di cancerogenesi, e cioè se si
tratta di un processo multistadio in cui un numero pur limitato di alterazioni
genetiche sia alla base dell'insorgenza del tumore ovvero una più ampia
instabilità genetica che determinerebbe la mutazione di una gran parte dei geni
a seguito di un difetto dei sistemi di riparazione del DNA che favoriscono
l'instabilità del genoma: già queste due contrapposte o divergenti teorie
rendono problematico stabilire la rilevanza, pur osservata, di mutazioni ai
geni p53 e k-ras ai fini della causazione del tumore, affermandosi da questa
ultima teoria che la loro mutazione non sarebbe che la conseguenza delle
alterazioni della struttura del DNA causate dalla instabilità genetica.
Per quel che riguarda il cloruro di vinile la stessa
esistenza di un meccanismo d'azione specifico di tale sostanza è affermato dai
consulenti dell'accusa ma al tempo stesso dagli stessi viene ammesso che "i
dati non sono ancora sufficienti per suggerire che esista una modalità
specifica che permetterebbe di identificare l'azione del cloruro di vinile".
E d’altra parte la stessa relazione EPA (2000) manifesta (pag 52 e seguenti)
problematicità al riguardo, circostanza che non può non lasciare intendere
quale sia lo stato delle conoscenze ancora incerte e passibili di
falsificazioni nel loro progredire.
Peraltro ritiene il Tribunale non si possa negare il
dato di fatto che il cvm è cancerogeno, anche se non si conoscono i particolari
del suo percorso genotossico di cui emergono sperimentalmente in via ipotetica
alcuni tratti pur significativi: il cvm si metabolizza nel metabolita reattivo
"presumibilmente il CEO" che "diversi indizi indicano come
genotossico in quanto interagisce direttamente con il DNA" (in tal senso
il citato rapporto EPA a pagg.48-59).
E, quanto agli organi bersaglio, se ne rileva, sulla
scorta degli studi esaminati che lo hanno evidenziato, maggior incidenza e
specificità negli angiosarcomi di animali inalati e di lavoratori esposti a
cvm. Tale maggior incidenza non è stata invece individuata in altri organi
(polmone e cervello) attraverso studi metodologicamente corretti, condivisi e
reiterati. Si ricorda al riguardo che le mutazioni a p53 sono state osservate sia
in lavoratori esposti che non esposti pressochè in pari percentuale affetti da
epatocarcinoma e comunque tali mutazioni non solo non sono specifiche ma
"possono riflettere meccanismi endogeni piuttosto che essere indotte da
cancerogeni esogeni"(Weihrauch).
Osserva poi il Tribunale come la tesi accusatoria si sviluppi ulteriormente
deducendo l’ipotesi della concausalità, a tal fine sostenendo la potenzialità
dell'alcol di interagire con il cvm. Sulla scorta delle critiche dei consulenti
della difesa, metodologiche e basate su studi tossicologici e sulle complesse
dinamiche del processo metabolico del cvm e dell'alcol si ritiene però che non
sussistano dati scientifici su cui solidamente basare l'esistenza della
asserita interazione tra etanolo e cvm e, anzi, l'analisi delle reazioni
metaboliche ipotizzabili conduce a ritenere improbabile l'interazione suggerita
dai consulenti del pubblico ministero che non hanno dimostrato come verrebbero
a determinarsi gli effetti sinergici tra le due sostanze.
Sulla scorta dei dati e studi di cui sopra, il
Tribunale procedeva dunque alla valutazione dei fatti di cui in imputazione,
premettendo brevi cenni sulle note teorie della causalità, che riteneva
necessari perché nel processo che ci occupa vi sarebbe stata la insistita
tendenza a sostituire il modello classico di causalità con la causalità
generale, intesa come idoneità della sostanza chimica a produrre certi tipi di
evento, oltretutto senza preoccuparsi di verificare tutti gli apporti
scientifici e forzando i passaggi con ipotesi di default o presunzioni o
assimilazioni e, soprattutto, trascurando di verificare la effettiva incidenza
della sostanza sul singolo caso. Impostazione che, secondo il Tribunale, non
può trovare consenso posto che, in via di principio, la causalità generale non
può essere ritenuta di per sé sufficiente a spiegare il nesso causale tra la
malattia che ha colpito il singolo soggetto e l'idoneità della sostanza a
causarla.
Si afferma infatti che tra gli stessi epidemiologi vi
è largo consenso nel ritenere che i loro studi, che riguardano popolazioni
generali e si propongono scopi preventivi di tutela della salute pubblica, non
sono in grado di spiegare la causalità specifica e cioè di attribuire i singoli
eventi lesivi a singoli comportamenti.
Anche perché gli studi epidemiologici non si basano
su un censimento di casi provatamente causati dall'esposizione a sostanze
tossiche (soprattutto quando la pluralità dei casi dipende da una pluralità di
fattori eziologici), ma solo di differenze tra i casi osservati e i casi
attesi: in tale ambito la causalità generale ha un significato ancor più
circoscritto nei confini di tale scienza e indica più propriamente un eccesso
di rischio senza costituire in sé una prova della idoneità della sostanza a
provocare la malattia.
E' per questa ragione che non c'è alcuna possibilità
di distinguere tra i casi esposti chi non si sarebbe ammalato in assenza di
esposizione e chi invece si sarebbe ammalato egualmente. Infatti, salvo rari
casi (tra cui rientra oltre che il mesotelioma da asbesto, l'angiosarcoma per esposizione a c v m) le
neoplasie professionali non hanno carattere di specificità e non sono
distinguibili neppure istologicamente
sotto il profilo morfologico da quelle
extra professionali.
Si ritiene dunque che l'incertezza domina sul caso
singolo proprio perché la quasi generalità dei tumori ha cause in elevatissima
percentuale extraprofessionali ignote e gli scienziati non hanno ancora
compreso appieno il modello molecolare nella carcinogenesi e formulano pertanto
ipotesi per cui qualsiasi dichiarazione riguardo al ruolo di qualsivoglia
agente in quanto cancerogeno trova un limite nella sua ipoteticità. E si
richiamano concetti espressi da epidemiologici e dalla stessa EPA nonché studi
soprattutto negli USA che hanno messo in rilievo che solo una piccolissima
parte dei tumori è in realtà ricollegabile all'attività industriale (dall'1 al
3% secondo l'agenzia) mentre la percentuale residua è dovuta a cause diverse,
cioè all'esposizione a inquinanti diffusi nell'ambiente o all'ingestione di
inquinanti che passano nella catena alimentare il cui uso è normalmente
consentito. Ricordandosi altresì che
gli stessi consulenti della accusa pubblica e privata hanno concordemente
affermato che lo studio epidemiologico non può bastare perché suggerisce
inferenze eziologiche senza però
poterle dimostrare in rapporto ai singoli individui.
Se
dunque la causalità in epidemiologia, anche quando affermata dalle agenzie, non
solo riguarda sempre e solo il livello di popolazione e non del singolo, ma può
essere soddisfatta da evidenze scientifiche ancora deboli e incerte dovendo
assolvere a finalità precauzionali, sarebbe errato affidarsi, ai fini di
ritenere assolto ogni compito accertativo della causalità generale, alle valutazioni
e alle enunciazioni delle stesse: eppure i consulenti medico legali dell'accusa
pubblica e privata hanno assunto come dato indiscusso proprio le indicazioni di
IARC 1987, senza neppure tenere conto degli studi successivi e in particolare
degli aggiornamenti del 1991 e del 2000 illustrati in aula dai loro coautori
dott.Simonato e dott.Boffetta.
Diverso invece l’approccio, in quanto, una volta
chiarito il contributo che l'epidemiologia, attraverso il calcolo del rischio
attribuibile, può dare alla soluzione del problema, la sussistenza del nesso
causale per l’attribuzione del fatto contestato va argomentata giuridicamente
considerando tutte le implicazioni e considerazioni che vanno ben oltre quelle epidemiologiche, e decisa dal giudice
sulla scorta dei principi di diritto ai quali il Tribunale si ispira
enucleandoli dopo excursus anche relativo alla giurisprudenza e dottrina
americana che ben metterebbero in rilievo, pur nell'ambito del processo civile,
le spinte che tendono a superare il modello meccanicistico di causalità evocate
dallo stesso P.M.: l'esigenza di una tutela delle vittime, dei beni della
salute e della vita umana.
Osserva il Tribunale che seppur detti beni devono
essere tenuti senz'altro in alta considerazione, e seppur queste sono le motivazioni
più o meno esplicite che spingono a orientamenti che introducono nel processo
ricostruttivo del nesso causale istanze di prevenzione generale (e si cita S.C
12/7/91 -sez 4° cui si rifà il P.M.), neppure bisogna trascurare che
nell'ambito del processo penale vi sono altri beni da tutelare che sono quelli
della responsabilità personale e della libertà. Ritiene dunque il Tribunale di
uniformarsi ai più recenti e più rigorosi orientamenti della giurisprudenza
della S.C. così potendosi enucleare i principi in diritto applicati: le
esigenze di certezza e garanzia, il rispetto dei principi di legalità e
personalità della responsabilità penale, di rango costituzionale, devono essere
soddisfatti mediante il mantenimento di un rigoroso modello causale ove il
rapporto di condizionamento sia spiegato o daleggi universali, secondo il
modello nomologico-deduttivo, o da legi di copertura scientifico-statistiche,
secondo il modello statistico-induttivo.
Anche le leggi statistiche possono essere utilizzate
nella spiegazione dell’evento purché il coefficiente percentualistico consenta
di inferire l’explanandum con quasi certezza sulla base di un arelazione
logico-probabilistica, e, al tempo stesso, si possa razionalmente escludere che
l’evento si sia verificato nel caso concreto per cause esclusive diverse dalla
condotta dell’agente;la mancanza di certezze scientifiche o comunque di
consenso generalizzato nella comunità scientifica non legittima il ricorso a
criteri meramente probabilistici di grado difficilmente determinabile, ancorché
qualificato “alto” o “elevato”. Il ricorso a tali criteri rischia infatti di
introdurre nell’accertamento del nesso causale un libero convincimento del
giudice, sia pure nobilitato dallo scopo di soddisfare esigenze ed attese di giustizia;dalle scienze e dai limiti di
conoscenza che esse pongono non si può prescindere; si può solo pretendere
l’adozione dei seguenti rigorosi criteri:
1) le inferenze causali devono essere tratte dalle
scienze che attraverso un rigoroso e corretto metodo scientifico apportino una
effettiva e affidabile conoscenza scientifica;
2) l'affidabilità delle conoscenze, sia pure suscettibili in
futuro di ulteriori apporti che possono modificarle o addirittura falsificarle,
è determinato dalla validazione che riceve e dalla accettazione generale o
preponderante nella comunità scientifica nonchè dalla verifica empirica delle
sue spiegazioni mediante il controllo dell'ipotesi attraverso la confutazione
così da raggiungere una "corroborazione provvisoria ";
3) le conclusioni debbono essere comunque verificate
nel loro progressivo evolversi e sempre confrontate con quelle di altre
discipline per accertare la coerenza complessiva del risultato raggiunto;
4) l’incertezza scientifica che dovesse, comunque, residuare
va risolta sia nell'ambito del rapporto causale sia nell'ambito della
imputabilità soggettiva secondo la regola di giudizio che la responsabilità
deve essere provata " oltre il ragionevole dubbio ", regola di
giudizio che oramai fa parte del nostro ordinamento;
5) la causalità generale, intesa come idoneità della
sostanza chimica a produrre certi tipi di evento, non può essere ritenuta di
per sé sufficiente a spiegare il nesso causale tra la malattia che ha colpito
il singolo soggetto e l’idoneità della sostanza a causarla. L’accertamento
della causalità non può essere ricavato dal solo fatto che la condotta abbia
aumentato il rischio del verificarsi dell’evento. Ciò implicherebbe una
illegittima confusione tra il piano soggettivo e quello soggettivo, facendo dedurre
l’attribuibilità dell’evento lesivo dall’inosservanza di norme cautelari;
6) gli studi epidemiologici, avendo ad oggetto popolazioni
generali e proponendosi scopi preventivi di tutela della salute pubblica, non
sono assolutamente in grado di spiegare la causalità individuale e cioè di
attribuire i singoli eventi lesivi a singoli comportamenti.
Osserva peraltro il Tribunale come nella specie
proprio la causalità generale da esposizione a clorulo di vinile è stata
utilizzata dall’accusa ai fini di mostrare non solo la idoneità lesiva della
sostanza, ma altresì per indicare gli indici di rischio relativo per
ciascuna neoplasia che si è ritenuta in
qualche misura, forte o debole , associata all'esposizione. E però, ritiene il
Tribunale, dagli stessi studi epidemiologici, tossicologici e sperimentali
risulta una causalità generale debole, per lo più al di sotto non tanto del
raddoppio del rischio, come almeno pretende la giurisprudenza civilistica
americana del più probabile che no, ma addirittura della significatività
statistica, ma ciò nonostante sempre e
comunque assunta come ineludibile
presupposto della causalità individuale
anche di fronte a fattori di rischio alternativi di alta potenza
esplicativa che sono stati valutati
come concausa della malattia e mai come fattori causali di per sè sufficienti e
necessari.
Si osserva al proposito che le conclusioni di IARC
1987, punto di partenza per le imputazioni e di approdo per le conclusioni del
PM, salvo alcuni aggiustamenti quantitativi dell'ultimo momento, che indicavano
una associazione tra esposizione a CVM e tumori al fegato (angiosaromi e
carcinomi epatocellulari), tumori polmonari, tumori cerebrali, tumori del
sistema emolinfopoietico, melanomi, hanno subito rivisitazioni critiche e ampi
aggiornamenti per la maggior parte incorporati nei due studi multicentrici
americano ed europeo ( Wong 1991; Simonato 1991), ulteriormente aggiornati di
recente (Ward 2000 e Mundt 2000 ) e ampiamente discussi in sede dibattimentale.
Sulla base di tali studi, considerando anche i risultati dello specifico studio
sulla coorte di Porto Marghera, che hanno evidenziato assenza di eccesso o non
significatività dell’eccesso per i tumori al cervello, del sistema
emolinfopoietico, del fegato diversi dall’angiosarcoma, del polmone, nonché per
la cirrosi epatica e per le malattie dell’apparato respiratorio, si osserva che
gli stessi consulenti epidemiologici
dell’accusa(si cita l’ultima relazione presentata dai consulenti Comba- Pirastu) avevano escluso o comunque
espresso dubbi e perplessità in ordine alla correlabilita' con le sostanze in
considerazione quantomeno dei tumori del cervello, del sistema
emolinfopoietico, dei melanomi, ma si potrebbe aggiungere anche del tumore
della laringe .
Ritiene invero il Tribunale che rispetto a queste
patologie, sulla base degli studi epidemiologici complessivi e più aggiornati e
delle più perentorie conclusioni cui
erano pervenuti gli stessi Simonato e Boffetta, autori dello studio multicentrico
europeo e del successivo aggiornamento, esaminati nel corso del dibattimento,
può affermarsi che non sussiste la prova di una causalità generale e cioè a
dire della idoneità del c v m e del PVC a provocare tali tumori. Si ritiene
infatti, che l'evidenza globale degli studi epidemiologici più recenti e più
significativi (e, come dichiarato da Simonato su espressa domanda, bisognava
”non considerare l'evidenza di Porto Marghera diversa dal resto dell'evidenza”)
individua una associazione forte tra esposizione a c v m e angiosarcoma epatico e eccessi di rischio
nello svolgimento di talune mansioni (autoclavisti e insaccatori) esposte ad
elevate concentrazioni per l’epatocarcinoma e per il tumore polmonare mentre le
altre associazioni, pure ipotizzate negli studi passati cui aveva fatto
riferimento IARC, non sono state confermate.
Ma il PM non ne avrebbe tratto le logiche e conseguenti conclusioni, in quanto, pur
avendo al termine della requisitoria presentato le schede riferite a 263 parti
offese relative a 311 patologie rispetto alle 721 patologie riferite a 542
parti offese introdotte con il decreto di rinvio a giudizio e con le successive
contestazioni supplettive nel corso del dibattimento, tuttavia, non ha ritenuto
di fornire una spiegazione di questa modificazione della contestazione originaria,
limitandosi ad affermare che i casi non ripresentati avrebbero avuto comunque
un loro rilievo nell'ambito dei reati di strage e di disastro contestati.
Sono stati eliminati tutti i tumori gastrici e del
pancreas che erano stati associati alla esposizione a dicloroetano, ed altresì
le broncopatie e le broncopneumopatie
(87), nonchè le pneumoconiosi collegate all'esposizione a PVC e, soprattutto,
quest'ultime indicate come predittive del tumore polmonare di cui dagli studi
epidemiologici è stato rilevato un eccesso nella mansione di insaccatore che
supporterebbe l’associazione, prendendo atto il PM che anche IARC 1999
concludeva per "inadeguata evidenza di cancerogenicità nell'uomo". Le
altre patologie (neoplastiche e non ) siano state ritenute o
non sussistenti a seguito della esame della documentazione medica e
dell'anamnesi generale e lavorativa ovvero non correlate all'esposizione.
Ma, secondo il Tribunale la logica conseguenza
sarebbe che essendo insussistenti o comunque non causalmente riconducibili esse
non possono avere rilievo neppure nelle fattispecie più ampie di pericolo per
la pubblica incolumità cui il pubblico ministero ha fatto riferimento.
Si osserva che alla debolezza delle evidenze epidemiologiche
il PM ha cercato di supplire facendo ricorso alla biologia molecolare e ai
risultati ancora incerti, contraddittori e lacunosi che allo stato è in grado
di offrire, in particolare sostenendo la tesi dell’azione sinergica tra i
fattori di rischio noti ( alcool, epatiti , fumo ) e le sostanze in discussione
che in tal modo assumerebbero il ruolo di concause potenzianti gli effetti
lesivi: non considerando che nel nostro ordinamento la concausa ha lo stesso
statuto epistemologico della causa con la conseguenza che se non è dimostrato
che un fattore è causa di un evento neppure può assumere la veste di concausa
Il PM nessun rilievo ha invece dato all'evidenza epidemiologica e
sperimentale che indiscutibilmente individua negli effetti del cvm un rapporto
dose–risposta la cui considerazione, da un lato, avrebbe ricollegato gli eventi
alle esposizioni di un lontano passato e, dall’altro, lo avrebbe indotto ad
escludere la rilevanza causale delle esposizioni successive al 1974.
Infatti in tutte le coorti, anche in quella in considerazione in questo processo,
i tumori rilevati e in particolare l'angiosarcoma, ma anche l'epatocarcinoma in
coloro che hanno svolto la mansione di autoclavisti e il tumore al polmone in
coloro che hanno svolto solo la mansione di insaccattori, sono tutti
riconducibili ad elevate o elevatissime esposizioni che erano quelle proprie
degli anni '50 '60 e primi anni '70 sino alla scoperta della cancerogenità
della sostanza. E si citano al riguardo i già ricordati studi epidemiologici
Simonato, Ward, Mundt, ma anche Martines e Mastrangelo dai quali si può
individuare un accordo uniforme e assoluto tra tutti i consulenti che hanno
partecipato al presente processo, in ordine a tale conclusione. Pacifico,
infatti, che nessun angiosarcoma del fegato (che è il tumore tipico da esposizione
a c v m) si è manifestato in lavoratori assunti successivamente al 1973 nella
corte europea e successivamente al 1967 nella corte statunitense e in quella di
Porto Marghera.
Si osserva poi che se si considera che la dose cumulativa
più bassa a cui è stato individuato un angiosarcoma (oltretutto di tipologia
non certa ) è quella di 288 ppm pari a circa 28 ppm circa di esposizione
giornaliera, si può affermare che alle esposizioni già presenti nella coorte di
Porto Marghera nel 1974, e ancora più alle esposizioni degli anni successivi,
pacificamente rientranti nei limiti dapprima adottati e in seguito imposti di 3
ppm giornalieri (e anche ampiamente al di sotto degli stessi come documentato
dalle rilevazioni dei gascromatografi) non risulta esservi prova di una
efficienza lesiva del cvm. In tal senso sarebbero convergenti anche gli studi
tossicologici e di oncogenesi che pure individuano un rapporto dose-risposta
per il cvm (si ricordano gli esperimenti di Maltoni e gli studi di Weinrauch e
di Swemberg secondo cui al di sotto di dosi cumulative di 10 ppm non è stata
accertata una idoneità lesiva del c v
m.
I consulenti del pubblico
ministero relativamente al problema della idoneità lesiva del cvm alle bassi
dosi non hanno potuto smentire né i risultati epidemiologici né quelli
sperimentali. Si sono limitati ad affermare "che non si può
escludere", "che la soglia al di sotto della quale non si sono
osservati tumori non è una soglia
effettiva ma una soglia apparente... perché non si possono fare degli studi che
dimostrino l'inesistenza di una soglia perché bisogna andare nell'infinitamente
piccolo".. (Berrino); “attualmente
una relazione tra esposizione e cancerogenità delle sostanze genotossiche è troppo confusa per offrire
linee guida sulla soglia.... e perciò non vi è possibilità di uscire
dall'atteggiamento di essere molto conservativi e sull'esposizione e sul
rischio e quindi accettare che non vi è
una dose sicura" ( Terracini); "con questo tipo di modello non riesco
a vedere l'effetto alle basse dosi e quindi sulle basse dosi non posso dire
assolutamente nulla " (Martines).
Resta il
fatto, e questo rileva nel processo penale, dell’assenza di sicura prova. Si
osserva infatti che, per quanto concerne gli angiosarcomi e gli epatocarcinomi
riscontrati negli autoclavisti nonché i tumori del polmone negli insaccattori e
nei solo insaccattori, ammesso che questi ultimi tipi di tumore, a differenza
del primo, abbiano significatività statistica oltre che plausibilità biologica,
si sono verificati tutti a seguito delle alte esposizioni risalenti agli anni
50 e 60 e prima parte degli anni '70 e cioè a quelle esposizioni elevate
antecedenti alla conoscenza della cancerogenità del cvm.
Nessun tumore del fegato e del polmone ha interessato
lavoratori della corte di Porto Marghera assunti dopo il 1967 e da tale data
oramai è trascorso interamente il periodo di latenza non solo medio ma
approssimantesi anche alle punte medio-alte rilevate.
Conseguentemente
si può trarre una prima incontestabile conclusione: alla stregua delle analisi epidemiologiche aggiornate l'idoneità
lesiva del c v m si è rivelata ad alte o elevatissime dosi mentre non sussiste la prova di una efficienza lesiva anche a basse dosi e in particolare
a quelle esistenti dal 1974 in poi.
Le
incertezze della scienza in proposito o le mere ipotesi o i postulati fondati
su preoccupazioni cautelative, seppure possano costituire dei punti di partenza
per ulteriori approfondimenti, non apportano nessun dato di conoscenza
utilizzabile in ambito processuale dove
ci si deve attenere ai fatti accertati e provati. Da tenere in considerazione
dunque le sole esposizioni eziologicamente rilevanti dal punto di vista
temporale, traendone tutte le conseguenze sia sotto il profilo della
riferibilità delle imputazioni agli imputati tutti tratti in giudizio, sia sotto il profilo della
addebitabilità per colpa degli eventi.
Infatti le condotte cui riferire causalmente gli
eventi sono antecedenti al 1974 e, quindi, a epoca precedente alla conoscenza
della canceroginità del cvm. Mentre per il periodo successivo, non sussistendo
la prova di una idoneità lesiva di tale sostanza alle basse dosi successive,
immediatamente contenute nei limiti imposti dalle norme cautelari e poco dopo
ridotte anche al di sotto degli stessi (e quindi nell'ambito di un rischio
consentito nell'attività di impresa), non si ravvisano neppure condotte cui causalmente riferire e colpevolmente
addebitare tali eventi.
Invece, si osserva, il PM compie una vera e propria
traslazione dei piani temporali perché rappresenta nella imputazione “un quadro
del passato” che ci riporta a condizioni lavorative (e a conseguenti addebiti
di colpa) che sono quelle proprie degli anni ’50-’60, e propone all’esame
dibattimentale tali situazioni come verificatesi nel successivo ampio arco temporale
che va dal 1970 al 2000. In tal modo, oltrechè non selezionare, alla stregua
delle risultanze epidemiologiche, le patologie correlabili, neppure il PM
ha adottato un criterio selettivo per
individuare i soggetti cui fondatamente addebitare gli eventi lesivi : si è
scelta invece - come è stato reiteratamente affermato dalle difese - la
strategia “della massificazione degli eventi e delle condotte“: indubbiamente
“fatto“ di maggior evidenza e impatto verso l’esterno , ma di nessun fondamento
in “diritto”. Ma l'accusa ha obbiettato, in diritto, che all'epoca erano
vigenti nel nostro ordinamento i DPR n° 547/1955 e n°303/1956- di cui si
parlerà più diffusamente nella parte concernente la colpa- che ricomprendevano
norme che dovevano considerarsi cautelative rispetto ai rischi che hanno
determinato gli eventi.
Ma il Tribunale già osserva che allora si ignorava la
pericolosità e la canceroginità sia del gas (cvm) sia delle polveri (pvc) che
si diffondevano nell'ambiente di lavoro,
e quindi la rappresentazione e la prevedibità degli eventi poi
verificatisi, essendo il solo rischio noto alla metà degli anni 60 la sindrome
di Raynaud, evento di tipo tutt’affatto diverso, patologia che determinava
disfunzioni alla circolazione delle mani e che
veniva a colpire i lavoratori che per le loro mansioni venivano a
diretto contatto con la sostanza nella pulizia delle autoclavi o dei filtri o
nell’insacco.
Dunque non appare condividibile l'assunto accusatorio
secondo cui quelle norme richiederebbero al datore di lavoro, qualunque sia la
nocività, prossima o remota del fattore
inquinante, di mettere in atto ogni strategia possibile per eliminarlo o neutralizzarlo, assumendosi
diversamente la responsabilità di tutte
le conseguenze potenziali derivanti da quella violazione ancorché in quel
momento impreviste o imprevedibili.
Questa tesi dilata sino alla imputabilità oggettiva il
concetto di responsabilità colposa poiché non si fa carico neppure di assumere
come elemento essenziale non tanto la prevedibilità dell'evento tipico, ma
neppure la rappresentazione dell'evento generico di un grave danno alla vita o
alla salute: non si può eludere il problema della conoscenza o conoscibilità
della nocività, e ancor più della cancerogenicità della sostanza (e nel caso
particolare del cvm) in un determinato momento storico sia in ambito
scientifico che in quello industriale secondo il modello del c.d. agente
modello.
Ma soprattutto, osserva il Tribunale, ancor meno è legittimo
confondere il piano soggettivo con quello oggettivo deducendo dalla
inosservanza di quelle norme di cautela generica la attribuibilità dell'evento
lesivo "con alta probabilità riconducibile proprio all'inalazione delle
polveri o del gas", così ritenendo decisivo per l'accertamento della
causalità il solo fatto che la condotta omissiva abbia astrattamente aumentato
il rischio del verificarsi dell'evento.
La dottrina e la
giurisprudenza prevalenti escludono che nell'ambito dell'accertamento del nesso
causale possa farsi ricorso alla teoria dell'aumento del rischio, "non
essendo possibili ibride commistioni di elementi di carattere soggettivo"
poichè dalla problematica oggettiva del nesso di causalità devono rimanere
escluse tutte le questioni afferenti la prevedibilità che attengono
propriamente all'elemento psicologico"( Cass 17/12/93-Ianieri-).
Ma pur seguendo il P.M. su tale piano ci si dovrebbe
interrogare, secondo il Tribunale, su quale sia stata nel 1974 la condotta
antidoverosa e quale avrebbe dovuto essere per contro la condotta corretta che, se posta in essere, avrebbe
impedito il verificarsi dell'evento. Secondo l'ipotesi d'accusa i comportamenti
antidoverosi sarebbero stati principalmente sia l'omessa fermata degli impianti
- o comunque un adeguato e tempestivo intervento sugli stessi per ridurre l'esposizione
nociva e cancerogena - sia l'omesso allontanamento dai reparti o dalle
lavorazioni a rischio dei lavoratori maggiormente esposti ( in particolare
autoclavisti e insaccatori).
Ammesso per pura ipotesi che tali condotte omissive si siano
verificate pur in presenza della conoscenza del rischio tossico e oncogeno , si
tratta di verificare se avrebbe potuto
il comportamento alternativo che si esige evitare il verificarsi dei tumori
epatici e polmonari in quei lavoratori che erano stati esposti, come risulta
dalle consulenze epidemiologiche e dalle schede personali prodotte nel corso
degli esami medico-legali, alle elevate concentrazioni degli anni 50 e 60 . I
dati di conoscenza scientifica ci dicono: a) che il cvm è una sostanza che
agisce secondo un rapporto dose risposta e che le esposizioni cumulative più
elevate sia per quantità sia per durata sono quelle maggiormente responsabili
degli effetti oncogeni; b) che secondo il modello carcinogenetico multistadio
il cvm sarebbe un cancerogeno iniziante e cioè inducente una mutazione
tendenzialmente irreversibile nei primi stadi del processo tumorale ; c ) che
il periodo di esposizione lavorativa e di latenza, anche sottratto il periodo
di "lag"( che è il periodo intercorrente tra la presumibile epoca
della induzione a seguito di esposizione alla sostanza cancerogena e la
manifestazione del tumore calcolato in circa 15 anni sulla base della
letteratura esistente), sarebbe rispettato per tutti i lavoratori che hanno contratto i tumori così da poter ragionevolmente
ritenere che le esposizioni rilevanti a determinare i tumori siano quelle degli
anni 50-60. Ne consegue che all'epoca
in cui i comportamenti doverosi erano concretamente esigibili essi non
avrebbero potuto evitare gli eventi verificatisi o, se si vuole, non sussiste
una prova dimostrativa avente elevata
probabilità che il comportamento alternativo avrebbe impedito o ritardato il
verificarsi dei tumori.
Ma il Tribunale, ha intrapreso una diversa soluzione
della problematica attinente la causalità: tutti i dati di conoscenza
introdotti nel presente processo, molteplici e aggiornati, valutati
complessivamente, non consentono di ritenere sussistente una associazione
causale tra cvm-pvc e tumori diversi dall'angiosarcoma e patologie che non
siano la sindrome di Raynaud e l'acrosteolisi nonchè tipiche epatopatie
interessanti l'endotelio.
A tali fini il Tribunale ritiene di effettuare, con
specifico riferimento alla coorte di Porto Marghera, un esame più dettagliato e
una valutazione critica dei dati epidemiologici e delle risultanze sperimentali
anche di biologia molecolare nonché di approfondire le caratteristiche
nosologiche e morfologiche delle neoplasie alla luce dei contributi dei consulenti medico-legali e anatomo
patologi. E conclude ritenendo non individuati fattori di rischio
professionale, né ipotizzabile un ruolo concausale dell’esposizione lavorativa
proprio perché non provata la causalità del fattore professionale, per i tumori
del laringe, del sistema linfatico e omopoietico, del cervello, per i melanomi,
ma anche per i tumori del polmone, e, quanto al fegato, per l’epatocarcinoma.
Circa il tumore al polmone il tribunale ha ritenuto
non sussistere l'evidenza epidemiologica e neppure la plausibilità biologica e
ha accertato perdipiù la presenza in 11 dei 12 casi di un rilevante fattore di
rischio extraprofessionale per elevato tabagismo.
Con riferimento all’epatocarcinoma, il Tribunale, pur
prendendo atto dei risultati degli studi epidemiologici che individuano eccessi
statisticamente significativi esclusivamente nei lavoratori alto esposti che
hanno svolto mansioni di autoclavisti, e pur prendendo atto anche dei risultati
degli studi sperimentali citati e altresì delle osservazioni cliniche e
istologiche sui casi in letteratura dibattuti che individuirebbero carcinomi
epatocellulari in esposti a c v m, ritiene che non possa dirsi raggiunta la
prova dell'attribuzione causale di tale tumore all'esposizione al c v m.
E ciò, non solo perché gli studi epidemiologici riguardano
ancora un piccolo numero di persone sia nella corte europea (10 soggetti ) sia
in quella di Porto Marghera (4 autoclavisti) con problematiche ancora aperte
sulla precisione della stima e con andamenti di rischio non particolarmente
elevati se si tiene conto della eziologia variegata e dell’alta incidenza dei
plurimi fattori di rischio, ma soprattutto perché in tutti i casi esaminati
mediante indagine autoptica e discussi in dibattimento non sono state
evidenziate le tipiche lesioni indotte dal c v m, e per contro sono state invece
individuate le lesioni riferibili ad accertati fattori noti di induzione di
tale tumore presenti in tutti i casi di Porto Marghera (epatiti virali b e c,
elevato consumo di alcol, cirrosi) che proponevano giustificate soluzioni
alternative.
Alla logica della falsificazione si sono richiamati gli
stessi consulenti dell’accusa, allorquando hanno affrontato il problema se sia
possibile pervenire dal dato epidemiologico a livello di popolazione a quello
individuale, e la risposta è stata cautamente affermativa, ma ristretta
sostanzialmente ai casi in cui non si è
in grado di fornire una spiegazione alternativa, cioè solo se si è in grado di
affermare che il singolo soggetto esposto a cvm non era esposto ad altro fattore
eziologico che giustifichi la insorgenza della patologia indipendentemente dal
cvm.
Analogamente si ritiene non provato il nesso causale per la
cirrosi, osservandosi che tutti i casi di cirrosi osservati nella casistica di
Porto Marghera per i quali era disponibile l'istologia hanno mostrato evidenza
di processi necroinfiammatori e in tutti i casi l'esame istologico ha
consentito anche di identificare l'agente eziologico coincidente con uno dei
noti fattori di rischio (infezione virale b o c, consumo di alcool).
Proprio la presenza di tali fattori di rischio ha indotto i
consulenti del pubblico ministero a
ipotizzare comunque solo un ruolo concausale del c v m. Ma, osserva il
Tribunale, l'esame istologico non ha evidenziato in nessun caso di cirrosi
lesioni tipiche dell'esposizione a c v
m: in particolare nei casi riguardanti i lavoratori Zecchinato e Simonetto che,
secondo i consulenti del PM, avrebbero sviluppato in sequenza prima cirrosi e
successivamente angiosarcoma epatico, così da avvalorare la associazione tra
tale malattia epatica e esposizione a c v m , tale processo patologico non ha
trovato conferma. Infatti, l' esame istologico di Zecchinato dimostra fibrosi
epatica congenita e angiosarcoma ma non evidenza di cirrosi e quello di
Simonetto dimostra epatocarcinoma in cirrosi con emocromatosi e non
angiosarcoma: nel primo caso la cirrosi è esclusa, nel secondo caso la cirrosi
ha origine in una malattia metabolica congenita e evolve in epatocarcinoma.
Analoghe, ancora, le conclusioni per le epatopatie
non caratterizzate da tipiche lesioni da cvm, relativamente alle quali la
letteratura esaminata evidenzia associazione non già all’esposizione a cvm,
bensì a consumo alcoloico o a epatiti virali.
In conclusione, osserva il Tribunale che
all’osservazione epidemiologica gli eccessi significativi che hanno evidenziato
un associazione forte riguardano i tumori epatici, angiosarcoma e
epatocarcinoma, e quindi il fegato appare come l’unico organo bersaglio del
cvm. Entrambe tali neoplasie hanno interessato lavoratori esposti ad elevate
concentrazioni di cvm, risalenti tutte agli anni ’50-’60, perlopiù svolgenti le
mansioni di addetti alle autoclavi. Precisa tuttavia che le evidenze
epidemiologiche presentano differenze di rilievo per la diversa incidenza dei
due tumori e per la presenza di una variegata molteplicità di fattori
confondenti che legittimano spiegazioni alternative per l’ epatocarcinoma,
rispetto a cui le analisi stratificate che mettono in rilievo una relazione
dose risposta sono ancora non persuasive e abbisognano di conferme per soddisfare
il criterio di riproducibilità del dato.
Altresì per quest’ultimo si pone un problema di
plausibilità biologica inquantochè non è noto neppure a grandi linee il
meccanismo di induzione di tale tumore, che interessa le cellule epiteliali, da
parte del cvm che, invece, tipicamente viene a colpire le cellule endoteliali :
si dovrebbe dare una spiegazione plausibile della circostanza che una medesima
sostanza produce neoplasie nettamente diverse sul piano morfologico ancorché
interessanti lo stesso organo. Spiegazione scientifica che non è stata offerta
neppure a livello sperimentale.
Eguali considerazioni merita l’ipotesi del cvm come
fattore concausale che interverrebbe cioè a interagire con i noti fattori di
rischio (alcool, epatite b e c, cirrosi): lo stato delle conoscenze non consente di pervenire a nessuna
conclusione in ordine alla sussistenza di tali meccanismi sinergici.
Il ricorso alla concausalità non può essere neppure
un espediente per sfuggire alla prova della efficienza causale esclusiva del fattore professionale posto che il
nostro ordinamento (art 41 c p) non autorizza l’assunzione di un “modello
debole “di causalità e lo statuto epistemologico della concausa impone che
anch’essa trovi adeguata spiegazione in leggi di copertura.
Pertanto trovano spiegazione
causale con riferimento alle elevate esposizioni a cvm solo gli angiosarcomi (otto) e, tra le patologie non neoplastiche,
le epatopatie caratterizzate dalle tipiche lesioni da cvm (cinque) e, infine,
le sindromi di Raynaud e/o acrosteolisi (dieci).
Tanto
ritenuto in ordine alla problematica del rapporto eziologico tra esposizione a
cvm e a polveri di PVC ed eventi contestati, si addentra poi il Tribunale nella
disamina degli impianti e sistemi di lavorazione del cvm, PVC e DCE in Porto
Marghera ponendoli in relazione alle conoscenze sulla tossicità e canceroginità
di dette tali sostanze, procedendo quindi alla valutazione delle condotte
contestate, per verificarne la sussistenza in relazione altresì agli specifici
addebiti contravvenzionali, e per desumerne o meno la configurabilità della
colpa nell’analisi altresì delle singole e specifiche posizioni degli imputati.
In diritto, peraltro, previamente
esclude la configurabilità nel nostro ordinamento del contestato delitto di strage
colposa secondo l’accusa da ritenersi punita "dall'articolo 449 in
riferimento all' articolo 422 c p". Ricordato che appunto secondo
l’accusa, sulla scia di parte della dottrina, l’accento andrebbe posto
sull’articolo 449 cp che consentirebbe di ricostruire un autonoma fattispecie
aperta di disastro innominato che si riempie via via di contenuto attraverso il
rinvio che tale norma fa ai disastri nominati di cui al capo primo e alle altre
figure di disastro indicate nel capoverso dell'articolo 449 cp, ritiene invece
il Tribunale di seguire il diverso orientamento che esclude la sussistenza
della strage colposa. Si osserva infatti, richiamandosi al riguardo le ritenute
fondate critiche della difesa, che il dato testuale dell'articolo 449 c p,
nell'incriminare la causazione colposa di un incendio (articolo 423 c p) o di
altro disastro preveduto dal capo primo del titolo sesto, ha operato un
richiamo selettivo ad alcune, e non a tutte le figure di cui al capo primo,
individuandone una specificamente (l'incendio) e le altre con la denominazione
di genere " disastro". Ha individuato nominativamente l'incendio
perché la norma regolatrice di tale fattispecie è la prima nella successione
delle norme relative ai "disastri" e costituisce anche il limite
iniziale della serie delle disposizioni richiamate.
Ritiene
invece il Tribunale corretta la prospettata configurabilità del delitto di
disastro innominato colposo, disattendendo, quanto a tale reato, le critiche
della difesa. Premesso che in punto di fatto il pubblico ministero, come ha
chiarito anche nel corso della sua requisitoria, è ricorso a tale fattispecie
per utilizzarla come "trait d'union" tra i due capi di imputazione e,
anzi, per configurare un unico disastro in quanto " l'attività di industria
e di impresa ha esplicato i suoi negativi influssi ed effetti sia all'interno
che all'esterno della fabbrica " e cioè provocando lesioni personali e
morte ai lavoratori esposti alla sostanza oncogena e altresì determinando un
grave inquinamento dei sedimenti e delle acque nei canali industriali e nelle
acque di falda sottostanti le discariche con tutte le conseguenze che ne sono
derivate anche alla ittiofauna, si è infatti rilevato dalla difesa che,
riferendo il disastro anche ad eventi interni allo stabilimento, riuscirebbe
difficile tracciare il limite rispetto al disastro correlato all'articolo 437
comma secondo c p e che, inoltre, richiamando l'inquinamento delle falde e
dell'ittiofauna vi sarebbe una sovrapposizione rispetto ai contestati reati di avvelenamento e di
adulterazione colposa di acque e di sostanze alimentari, e si è sostenuto che
ad integrare la fattispecie non è sufficiente un qualsiasi pericolo, ma
esclusivamente un pericolo che deriva da una atto diretto a cagionare un
disastro (comma primo) o integrato dalla verificazione dell'evento disastroso
(comma secondo).
Ma ritiene
il Tribunale che una siffatta ricostruzione della fattispecie non sia
condividibile laddove nel reato di disastro innominato si ritengano, quali
elementi necessari alla sua definizione, una sia pure relativa contestualità
degli eventi e la loro determinazione da causa violenta. Elementi, questi,
specificativi e non costitutivi, tali essendo invece la gravità e la
diffusività degli eventi nell'ambito di una comunità estesa, così da essere
idonei a concretamente porre in pericolo la pubblica incolumità, eventi
determinati da condotte anche protratte nel tempo che hanno, ciascuna con
efficienza causale, realizzato con attività predisponente o aggravante la
situazione di rischio. L’evento può verificarsi solo quando si siano
determinate un complesso di condizioni: in tal caso è irrilevante verificare se
i fattori causali di quel complesso di apporti sia prossimo, remoto o
concomitante rispetto alla verificazione dell'evento poiché anche in tal caso
ricorre il principio di equivalenza delle cause diacronicamente succedutesi (
art.41cp).
E nel caso
che ci occupa il rischio costituito dall'esposizione a cvm ha causato gli otto
angiosarcomi contestati , le cinque epatopatie ad essa correlabili, le dieci
sindromi di Raynaud/acrosteolisi, in tal modo dimostrando di avere idoneità
lesiva dell'integrità fisica e di avere efficienza diffusiva nell'ambito della
comunità dei lavoratori esposti alle alte dosi di tale sostanza e addetti alle
mansioni più a rischio. Idoneità lesiva venuta meno con la drastica riduzione
delle esposizioni sin dal 1974.
Il
Tribunale esclude infatti completamente la configurabilità dei delitti
contestati in relazione alle condotte successive al 1973, osservandosi che, per
come emerso dall’istruttoria dibattimentale, l’accertata drastica riduzione
delle esposizioni a partire appunto dal 1974, avrebbe fatto venir meno
l’idoneità lesiva della sostanza ed ogni situazione di rischio per l’incolumità
pubblica. A sostegno di tale conclusione il Tribunale si dilunga nell’analisi
delle risultanze processuali in relazione alle conoscenze sulla tossicità e
canceroginità del cvm, ai processi produttivi nei singoli reparti, agli
interventi di manutenzione e di modifica degli impianti, volti a limitare le
esposizioni dei lavoratori, alle misure di prevenzione personale predisposte,
in particolare per la tutela degli insaccatori ed autoclavisti.
Ne
consegue che il predetto reato si ritiene causalmente riferibile a quegli
imputati che ricoprivano nell'epoca in considerazione (1969-1973) posizioni di
garanzia e, in tale ambito temporale rimane circoscritto, perché per il periodo
successivo viene meno anche l'efficienza causale della sostanza e, quindi, la
situazione di rischio.
Peraltro
la riferibilità causale di tale reato, così come dei reati di omicidio e di
lesioni colpose per gli angiosarcomi e per le epatopatie correlate, agli
imputati che nell'epoca considerata, ricoprendo posizioni di garanzia, avevano
la gestione del rischio relativo all'esposizione alla sostanza tossica e
oncogena, non è accompagnata anche dalla imputabilità degli eventi a titolo di
colpa (tranne che per i reati di lesioni colpose per i casi di Raynaud in
ordine ai quali il proscioglimento degli imputati specificamente interessati in
relazione al predetto periodo di causazione, consegue alla prescrizione).
Il
principio ispiratore, quanto appunto alla componente psicologica del reato, è
che nei delitti colposi, la prevedibilità dell’evento deve essere riconosciuta,
in particolare per quanto riguarda l’esercizio di attività pericolose, sulla
base del criterio della migliore scienza ed esperienza presenti in un
determinato settore ed in un preciso momento storico, costituito dall’epoca in
cui viene iniziata la condotta. La prevedibilità dell’evento può essere
affermata solo quando sussistano leggi scientifiche di copertura, le quali
permettano di stabilire che da una certa condotta possono conseguire
determinati effetti. La responsabilità dell’imputato può essere affermata solo
quando l’evento verificatosi sia riconducibile al tipo di evento che la regola
cautelare intende prevenire.
E nella
specie, all'epoca non era noto sulla base di esaurienti conoscenze scientifiche
fondate su affidabili verifiche sperimentali il rischio oncogeno sull'uomo
(angiosarcomi), e le lesioni epatiche indotte da cvm non avevano manifestato
segni patologici inequivoci, anche perché, quando sono stati rilevati segni di
sofferenza epatica, i lavoratori sono stati allontanati dall'esposizione, in
tal modo osservando l'obbligo precauzionale di una adeguata sorveglianza
sanitaria.
Obbligo
non osservato, invece , relativamente ai casi accertati di Raynaud/acrosteolisi
, trattandosi di patologia nota sin dalla metà degli anni '60 e regrediente con
l'allontanamento dalle alte esposizioni cui era associata e perlopiù
riguardante mansioni che implicavano un contatto diretto con la sostanza che
doveva essere evitato con idonee misure protettive realizzate tardivamente.
Dunque
secondo il Tribunale, nella fattispecie l’impresa, e per essa gli odierni
imputati, risulta essersi mossa tempestivamente, sotto il profilo della
modifica delle procedure e degli interventi sia immediati che a medio termiune
sugli impianti e sulle apparecchiature, non appena il problema della
canceroginità del cvm ebbe ad appalesarsi con un consistente fondamento
scientifico. Le opere eseguite, comprovate documentalmente e confermate dai
testi escussi, avrebbero, a parere del Tribunale, permesso di ottenere in breve
termine una drastica riduzione dei precedenti livelli di esposizione,
concretamente evidenziata soprattutto a partire dalla seconda metà
dell’anno1974 e per tutto l’anno 1975, con successivi netti sviluppi di
riduzione nei conseguenti anni 1976-1997 a valori ampiamente ricompresi nei
limiti prudenziali e rispettosi delle soglie all’epoca individuate e
successivamente stabilite dalla normativa.
Si ritiene
dunque infondato l’addebito ascritto agli imputati sotto il profilo della
responsabilità colposa, sia generica che specifica.
Né
tantomeno, ed a maggior ragione, è ipotizzabile l’elemento soggettivo del dolo,
integrante l’ipotesi di reato di cui all’art. 437 c.p., pure contestato dal
P.M. Sotto quest’ultimo profilo, va rilevato che l’accusa, sotto la
qualificazione dell’ipotesi di cui all’art. 437 c.p., ascrive l’omessa
collocazione “di sistemi ed apparecchi di sicurezza destinati ed idonei a
prevenire l’insorgenza di tumori e di malattie anche gravissime”.
Osserva al
riguardo il Tribunale che tale tipologia di contestazione non contiene, nella
fattispecie concreta, l’indicazione di fatti specifici, in particolare per
quanto riguarda la natura degli apparecchi che avrebbero dovuto essere
collocati, per cui si deve ritenere che il P.M. abbia fatto riferimento a tutte
le asserite violazioni integranti gli addebiti di colpa ascritti.
Peraltro
il Tribunale, nell’analisi della suddetta norma, precisa che: la previsione
normativa di cui all’art. 437 c.p. configura la più severa sanzione, predisposta per le violazioni più gravi del dovere
di sicurezza, in quanto è caratterizzata sul piano soggettivo dalla
necessarietà del dolo e sotto il profilo oggettivo dalla sussistenza di
violazioni del dovere di sicurezza aventi particolare serietà;
la
fattispecie in esame non descrive
specificamente in quali situazioni sorga il dovere di attivazione, per cui deve
ritenersi, secondo i principi generali concernenti la responsabilità per
omissione, che la condotta di omessa collocazione possa essere correlata
soltanto a quei sistemi o quegli apparecchi la cui collocazione sia
obbligatoria sulla base di una specifica norma di prevenzione di disastri o
d’infortuni;in sostanza, la previsione di cui all’art. 437 c.p. costituisce una
fattispecie avente riguardo non già ad una qualunque violazione del generico
dovere di sicurezza, ma soltanto alla violazione dolosa di precise disposizioni
della statuizione normativa speciale, che di per sé siano sanzionate come
contravvenzioni e che prescrivano specifici doveri di collocazione di impianti,
apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri od infortuni sul lavoro.
Dunque
sorgono in considerazione, nella fattispecie, le asserite violazioni di cui ai
DPR n. 547/55 e n. 303/56; sotto il
profilo oggettivo, la definizione di “impianti” individua delle installazioni
caratterizzate da stabilità, così come il concetto di “apparecchi” qualifica
delle attrezzature aventi una certa complessità tecnica, diretta specificamente
alla prevenzione summenzionata; del resto, correlativamente, il termine
“collocazione” corrisponde ad un’attività avente ad oggetto una cosa dotata di
stabilità strutturale; dunque, si possono fondatamente escludere dal novero di
tale previsione normativa i dispositivi di protezione individuale, nonché le
cautele relative all’adozione di particolari procedure di lavoro o di
organizzazione del sistema, in quanto non possiedono i requisiti suindicati.
Neppure le parti d’impianto funzionali al ciclo produttivo rientrano
nell’ambito dei dispositivi suddetti, poiché indubbiamente la fattispecie di cui
all’art. 437 c.p. si riferisce a strumenti aventi specificamente ed unicamente
la destinazione alla sicurezza.
E in forza
di tali premesse ritiene che: gli addebiti di omesso blocco degli impianti e di
omesso risanamento dei medesimi, di mancata manutenzione degli elementi degli
impianti più soggetti a deterioramento, di mancata adozione delle misure
necessarie a tutelare la salute dei lavoratori, di mancata emissione dei
provvedimenti conseguenti alla segnalazione (con la relazione del marzo 1977)
dell’Istituto di Medicina del Lavoro, sono tutti al di fuori della previsione
normativa succitata, sia per la genericità dell’oggetto, sia per la palese non
correlabilità alle nozioni di collocazione di apparecchi specifici con finalità
antinfortunistica o comunque di prevenzione; la contestazione d’insufficiente
manutenzione degli impianti, con riferimento alla sostituzione degli organi di
tenuta (valvole, rubinetti), non concerne ugualmente l’ambito applicativo della
norma di cui all’art. 437 c.p. ; infatti, tali organi costituiscono parti degli
impianti produttivi normalmente funzionanti e non integrano invece specifici e
distinti strumenti con finalità preventiva; gli addebiti di omessa sorveglianza
sanitaria, di omessa trasmissione delle informazioni ai dipendenti, di omessa
adozione di particolari sistemi di organizzazione del lavoro o di differenti
procedure, di omesso controllo dell’uso dei mezzi di sicurezza personale, di
omessa separazione delle lavorazioni insalubri, sono ugualmente tutti estranei
all’ambito della fattispecie normativa di cui all’art. 437 c.p., sempre per le
motivazioni suesposte in ordine alla circostanza che trattasi di addebiti
relativi a modalità operative e non già invece integranti strumenti da
collocare, destinati specificamente alla funzione di prevenzione ed
antinfortunistica.
Secondo il
Tribunale anche la contestazione di omessa collocazione di adeguati strumenti
di monitoraggio non appare rientrare nel novero degli strumenti anzidetti. In
ogni caso, anche a ritenere che i gascromatografi possano essere ricompresi tra
le apparecchiature summenzionate, si è ampiamente evidenziato che i medesimi
sono stati effettivamente collocati nel contesto dei singoli reparti, in
termini di certa tempestività e con efficacia sicuramente appropriata a
controllare le singole zone di lavoro.
E
analogamente inconsistenti, alla luce delle installazioni e delle modifiche
impiantistiche adottate con le commesse analiticamete ricordate dal Tribunale,
si ritengono gli addebiti relativi alla mancanza di cappe d’aspirazione.
Ulteriormente
precisa poi il Tribunale che l’infondatezza sul piano oggettivo dell’ipotesi di
reato di cui all’art. 437 c.p. trova riscontro sotto il profilo soggettivo, in
quanto è del tutto inesistente una consapevole volontà, negli imputati di cui
al presente giudizio, di astenersi dal collocare impianti ed apparecchi diretti
a neutralizzare la situazione di rischio, precisamente riconosciuta come tale
dai medesimi. La consapevolezza della condizione di rischio correlata all’esposizione degli operatori risulta essere stata invece
adeguatamente affrontata dall’impresa, e per essa dagli odierni imputati,
mediante l’adozione di tutte le iniziative idonee, sia per quanto riguarda la
modifica delle procedure che per quanto concerne l’adozione degli elementi
tecnologicamente più avanzati e la modifica e ristrutturazione degli impianti.
In
conclusione sarebbe rimasta provato che solo per quanto riguarda gli operatori
sui quali è stato riscontrato il fenomeno di Raynaud i valori espositivi erano
superiori ai limiti di cui alla normativa vigente, cioè 500 ppm, nell’arco
temporale sino al 1974. Trattasi in particolare dei lavoratori autoclavisti e
degli operatori all’insacco ed all’essiccamento, sopra specificamente
individuati con riferimento all’ipotesi della malattia di Raynaud ed
all’acroosteolisi, per i quali indubbiamente è emerso che, fino al momento
dell’adozione delle diverse procedure ed alla modifica ed all’aggiornamento
degli elementi delle apparecchiature, cioè fino all’epoca decorrente dall’anno
1974, non sono state adottate le misure cautelari idonee ad evitare l’eccessivo
contatto diretto tra le mani ed il CVM.
Ma sulla
scorta di tutte le considerazioni svolte, ribadisce il Tribunale che non può
però ravvisarsi alcuna forma di continuità o di correlazione tra le predette
patologie e quelle tumorali od epatiche, assolutamente distinte quanto a
tipologia e formazione e quindi integranti un tipo di evento diverso e non
prevedibile, le quali sono state oggetto di acquisizioni scientifiche
sufficienti soltanto a partire all’anno 1974, come evidenziato da tutte le
organizzazioni internazionali che si occupavano della sostanza in esame. Del
resto, si ricorda, tutte le patologie anzidette, integranti eventi di tipo
diverso, trovano origine nelle elevatissime esposizioni degli anni cinquanta e
sessanta, le quali rimangono al di fuori della contestazione del P.M. e quindi
del presente giudizio.
Conclusivamente
quindi il Tribunale individua gli imputati cui riferire i ritenuti fatti-reato
solo sotto il profilo causale (angiosarcomi e epatopatie) e talune patologie
sia sotto il profilo causale che colposo (Raynaud/ acrosteolisi), lesioni
colpose ormai estinte per intervenuta prescrizione, specificando dunque, per
tutte le ipotesi di reato ricomprese nel primo capo d’imputazione le
conseguenti formule di assoluzione o proscioglimento.
Non si
esime infine il Tribunale da valutazione e conclusione di sintesi in ordine
all’accusa prospettata, osservando che il processo ha sofferto della fuorviante
impostazione accusatoria, un procedere senza distinzioni in cui sono mancate le
coordinate spazio temporali necessarie per orientare nella individuazione delle
condotte e dei soggetti ai quali fossero imputabili.
Si ricorda
che nel 1° capo di imputazione si addebitano tumori e malattie (721 patologie –
di cui 228 neoplasie-relative a 542 parti offese, ridotte nelle conclusioni a
311 patologie – di cui 164 neoplasie - relative a 263 parti offese) riferite a
condotte omissive che si sarebbero estese in uno spazio temporale ininterrotto
e non concluso di 30 anni (il PM ha contestato la permanenza in atto).
Addebiti
di colpa infondati in fatto e eventi suggestivamente massificati configuranti i
reati di disastro colposo e di strage colposa
(inesistente nel nostro ordinamento giuridico) di grande impatto e forza
evocativa.
Eventi
che, nei limiti in cui siano imputabili all’esposizione a CVM-PVC, devono
essere ricollocati nel loro tempo reale, un "quadro del passato" che
ci riporta alle condizioni di lavoro
incidenti sullo stato di salute dei lavoratori che sono quelle degli anni ‘50 –
‘60 e non alla fase temporale
successiva (1969-2000) che è stata proposta all'esame dibattimentale.
Questa
sfasatura temporale, secondo il Tribunale, ha percorso tutto il processo e ne
ha determinato gli esiti: perché era reale la rappresentazione dei fatti se
riferita al tempo passato e, invece, inattuale e contraria al vero se riferita
agli anni successivi.
Dunque
necessaria una contestualizzazione storica per uscire dalla confusione e dalla
sovrapposizione dei piani temporali.
Ricorda al
riguardo il Tribunale che allorquando nei primi anni ‘50 presso il
petrolchimico di Porto Marghera iniziò la produzione del cloruro di vinile e
del polivinile le condizioni di lavoro
erano estremamente pesanti, usuranti e nocive e non subiranno cambiamenti fino
alla fine degli anni ‘60, primi anni '70.
Da tale
periodo iniziano a determinarsi alcuni non irrilevanti mutamenti sulla scorta
delle rivendicazioni sindacali e della presa di coscienza dei diritti degli
operai.
Vi
concorrono le prime conoscenze sulla sospetta cancerogenità del c v m che gli
esperimenti sugli animali portati avanti da Maltoni evidenziano.
La
definitiva conferma, nel gennaio 1974, della cancerogenità della sostanza
determinerà una accelerazione degli interventi sulle procedure di esercizio
degli impianti di polimerizzazione, sugli interventi di manutenzione e sulle
modificazioni ai processi e agli impianti.
L’incalzare
del sindacato, da un lato, la responsabile disponibilità della controparte,
dall’altro, progressivamente e in uno
spazio temporale relativamente breve,
ridurranno le esposizioni drasticamente: dai 500 ppm (e oltre) degli
anni '50 '60 e dai 200 ppm dei primi anni '70
si passerà rapidamente a esposizioni di 25 ppm e già nel 1975 oscillanti
tra 5 e 3 ppm, per portarsi poi negli anni successivi al di sotto di 1 ppm.
A
esposizioni, cioè, non solo consentite sulla base del parametro di 50 ppm
provvisoriamente raccomandato nell'aprile del 1974 dal Ministero della Sanità
(che è quello stesso fissato in Germania
e nel Regno Unito), ma ampiamente al di sotto dei nuovi parametri
allorquando la normativa di recepimento della direttiva CEE fisserà con DPR n°
962 del 1982 il limite di 3 ppm come esposizione media di lungo periodo.
Nei
reparti di polimerizzazione, e quindi in quelli con i valori di esposizione più
elevati e maggiormente a rischio (CV6, CV16, CV14, CV24), nel periodo
intercorrente tra l'aprile del 1974 e la fine del 1975 sono state eseguite 5351
determinazioni mediante "pipettone": i valori medi mensili di
concentrazione del c v m sono inferiori a 50 ppm in tutti i periodi di tale
arco temporale e tendono a una progressiva diminuzione tanto da raggiungere nei
primi mesi del 1975 valori medi inferiori a 5 ppm.
I valori
espressi dalle rilevazioni dei gascromatografi entrati in funzione nel marzo
1975 vengono confrontati anche con i campionatori personali indossati su turni
di 8 ore di operai dedicati a varie mansioni di lavoro e la correlazione è
confermata : negli anni 1976-1977 il 75% delle determinazioni è risultato
inferiore a 1 ppm, il 14% è risultato compreso fra 1 e 2 ppm, il 5% compreso
fra 2 e 3 ppm, il 4% compreso fra 3 e 5 ppm e lo 0, 7% superiore a 5 ppm. A
novembre del 1975 i valori medi mensili sono inferiori a 1 ppm.
Tale
crollo delle esposizioni fu la conseguenza incontestabile di modifiche delle
procedure, di interventi sugli impianti, documentata in atti e confermata dalle
prove testimoniali.
Dunque, i
tumori e le patologie che il pubblico ministero ha ritenuto riferibili
all'esposizione al cvm sono tutti, pacificamente e incontrovertibilmente, come
hanno detto unanimamente i consulenti della accusa e della difesa, attribuibili
alle condizioni di lavoro e alle alte esposizioni degli anni '50 -'60.
Questa è
l'epoca in cui sicuramente si ignorava la oncogenità del c v m: in tutti paesi
in cui si produceva questa sostanza, in tutti gli stabilimenti in cui si sono
compiuti i numerosi e approfonditi studi epidemiologici, aggiornati fino ai
tempi nostri, la produzione del polivinile è avvenuta nelle medesime condizioni
lavorative, con gli stessi elevati livelli di esposizione e con gli stessi
sistemi produttivi esistenti a
quell'epoca a Marghera.
Per
propria scelta quindi il pubblico ministero non ha agito nei confronti degli
amministratori e dei dirigenti di quell'epoca perchè ha ritenuto che gli eventi
verificatisi non potevano essere loro addebitati per mancanza di colpa
derivante dall'ignoranza degli effetti oncogeni. Il pubblico ministero ha deciso
invece di agire nei confronti dei loro successori.
Per
portare comunque a compimento il suo proposito il PM è stato costretto a
trasferire l’epoca della causalità a quella della colpa: ha collocato cioè la
causa degli eventi, risalenti alla prima era degli anni '50 '60, nella seconda era degli anni '70-2000
allorquando "si sapeva”, muovendosi su tre direttrici.
La prima
tende, nei limiti in cui è possibile, a sovrapporre la prima e la seconda
"era": la conoscenza della oncogenità del c v m è fatta risalire al
1969, e cioè ai primi esperimenti del dottor Viola che individua sui ratti
esposti ad elevatissime concentrazioni di c v m (30 mila ppm) dei tumori
sottocutanei, ancorchè tali esperimenti siano stati ritenuti non significativi
e non estrapolabili da animale a uomo oltre che dalla comunità scientifica
anche dallo stesso autore.
Si
pretende cioè dal PM un adeguamento immediato ai risultati degli esperimenti di
Viola comunicati nel 1970, ancorché lo stesso autore sia cauto sul significato
degli stessi e ritenga sia necessario un
loro approfondimento.
Tutta la
comunità scientifica e gli organismi internazionali (OMS) rimasero in attesa di
conferme e di sviluppi della ricerca che era impostata su modelli sperimentali
ritenuti inadeguati (alte concentrazioni, numero e specie di animali
insufficiente..) e comunque non estrapolabili dall’animale all’uomo.
E’ stata
Montedison ad assumere la tempestiva
iniziativa di uno studio basato su modelli sperimentali che saranno
unanimamente apprezzati, incaricando sul finire del 1970 il professor Maltoni di condurre un esperimento secondo
metodologie adeguate, "meno pionieristiche", che produrrà i primi
risultati, individuando i primi angiosarcomi al fegato in ratti, topi, criceti
nel 1972, risultati che l’oncologo comunicherà al committente nel novembre e,
ancorché parziali, alla comunità scientifica già nell’aprile dell'anno
successivo.
Suggestivamente
il PM insinua, ma non prova, che le industrie sapessero e che avessero sino
allora taciuto perchè avvinte da un patto di segretezza svelato dalle prime
morti per angiosarcoma accertate su tre lavoratori della società americana
Goodrich nel gennaio del 74. In proposito anche il consulente dell'accusa prof.
Carnevale, che pure si è occupato di complotti dell'industria, ha affermato che
vi furono sospetti, ma che nulla risulta in letteratura. Sotto il profilo più
propriamente probatorio, dagli atti acquisiti nel corso della rogatoria negli
USA effettuata dal PM è emerso piuttosto che le industrie europee e americane
si vincolarono ad un patto di riservatezza sino alla conclusione degli
esperimenti di Maltoni con il proposito di garantirsi da fughe di notizie e
strumentalizzazioni che potessero avvantaggiare gli uni e pregiudicare gli
altri, patto che non ebbe alcuna esecuzione per le perplessità delle industrie
americane e per le notizie preoccupanti sui primi risultati sperimentali
comunicati da Maltoni.
Gli
esperimenti di Viola possono essere considerati un campanello d’allarme sulla
possibile oncogenità della sostanza e sono stati assunti da Montedison, cui si
sono associate le altre industrie europee, come un impegno ad approfondire gli
studi sperimentali per fare chiarezza e per pervenire a risultati probanti ai
fini di adottare le conseguenti decisioni.
Ma nel
frattempo Montedison non rimase inerte perché avviò commesse ed eseguì
interventi già nel 1973 che riducevano l’esposizione negli impianti di
polimerizzazione (il degasaggio e lo scarico delle autoclavi, la loro bonifica
e pulizia).
E
successivamente, come si è detto, quando la cancerogenità fu confermata
sull’uomo dai casi di angiosarcoma su tre lavoratori della industria
statunitense Goodrich accertati nel gennaio 1974, intraprese quelle modifiche
agli impianti, cui si è fatto diffusamente riferimento nella parte motiva, che
ridussero drasticamente le esposizioni ai fini di prevenire tali eventi
avversi.
Nel corso
degli anni successivi l’attività di risanamento ha intrapreso ulteriori
iniziative da cui è conseguito il
raggiungimento di valori ampiamente al di sotto della soglia stabilita.
Il
pubblico ministero intraprende la seconda direttrice.
Contesta
l'affidabilità delle misurazioni da parte dei gascromatografi installati nei
vari reparti : ma la comparazione con i rilevamenti effettuati con “i
pipettoni” e con i campionatori personali smentiscono tale assunto perché viene
evidenziata una situazione espositiva sostanzialmente corrispondente con
diversi sistemi di rilevazione. Anche gli accertamenti effettuati dal
consulente dell’accusa privata su pretese violazioni di procedure
nell’esercizio dei gascromatografi
risultano del tutto inidonei a infirmare la validità e la correttezza
del loro funzionamento e, comunque, anche a voler ammettere l’esattezza dei
rilievi, le divergenze cui si perviene sono del tutto trascurabili.
Contesta
ancor più radicalmente il PM l’introduzione nel 1975 di un sistema di
monitoraggio sequenziale multiterminale che determinerebbe una diluizione delle
concentrazioni. Ma tale sistema è conforme alla direttiva CEE e al DPR n°
962/1982, è stato quello prescelto anche dalla componente maggioritaria del
sindacato, perché più idoneo a rilevare l’effettiva esposizione dei lavoratori
nelle zone di lavoro: comunque dai raffronti eseguiti nei reparti CV6,CV14,CV16
è risultato che i valori medi ottenuti dal sistema monoterminale erano
sovrapponibili a quelli acquisiti col sistema pluriterminale.
La pubblica accusa
nell’intento di infirmare i valori espositivi, ampiamente al di sotto di quelli
stabiliti dalla normativa, intraprende la terza direttrice e si attesta su una
posizione di assoluta intransigenza, negando che vi possa essere una
qualsivoglia soglia di sicurezza per gli oncogeni : "non si può
escludere". Si tratta di una posizione cautelativa condivisibile sotto
l'aspetto sociale, ma la valutazione del legislatore è stata diversa perché non
ha vietato la produzione del cvm, ma ha semplicemente imposto dei limiti di
esposizione che ritiene possano essere cautelativi rispetto al rischio
oncogeno.
Gli studi
tossicologici e di oncogenesi ampiamente esaminati e discussi nella parte
motiva sono convergenti, secondo il Tribunale, nell’individuare un rapporto
dose-risposta per il c v m, individuando una dose cumulativa di non effetto a
10 ppm (Maltoni, Weinrauch, Swemberg).
Ricorda d’altra parte il Tribunale
come gli studi epidemiologici hanno individuato un caso di angiosarcoma ad una
esposizione cumulativa per dieci anni di 288 ppm, la più bassa che ha provocato
tale tumore, equivalente a 25 - 28 ppm di esposizione cumulativa annua.
E che l'osservazione ha
messo in evidenza che nessun angiosarcoma del fegato si è manifestato in
lavoratori assunti successivamente al 1973 nella coorte europea e
successivamente al 1967 nella coorte statunitense e in quella di Porto
Marghera. Ed ancora si ricorda il recente studio (Rozman e Storm-1997-) con il
quale viene confermato che " fino all'ottobre del 1993 nessun nuovo caso
di angiosarcoma epatico fu riportato dal registro internazionale fra i più di
80 mila lavoratori degli Stati Uniti che erano stati esposti per la prima volta
al cloruro di vinile a partire dal 1968, traendone la conseguenza che la
riduzione dell'esposizione entro il range di 0,5- 5 ppm sembra essere stata
sino ad ora adeguatamente protettiva".
Si osserva
infine che il principio di precauzione è divenuto patrimonio della cultura
scientifica, industriale e legislativa solo in tempi recenti e per quanto
riguarda il CVM la sua produzione iniziale del cvm, risalente agli anni 30, non
fu sottoposta a sperimentazioni precauzionali se non per quanto riguarda il
rischio di esplosione e fu usato negli spray e come anestetico fino ai primi
anni '70. Solo, dopo la scoperta della sua oncogenità e purtroppo delle morti
causate, i numerosi studi sperimentali e epidemiologici hanno dato delle
indicazioni in base alle quali il legislatore ha posto dei limiti cautelativi
che appaiono adeguatamente protettivi.
E se tali
limiti sono rispettati (si intende i limiti cumulativi medi e non gli
sforamenti occasionali che pur possono tutt'ora esserci per disfunzioni o per
"incidenti rilevanti" in occasione dei quali vengono tuttavie
attivate le procedure di emergenza) e se sinora non si sono verificati effetti
avversi nonostante che sia trascorso un periodo temporale che oltrepassa il
periodo medio di latenza dei tumori indotti, che è di 28-30 anni, l’ultimo
fronte su cui si attesta il pubblico
ministero -secondo cui "nessuna dose è sicura"- non ha nessuna
valenza giuridica e nessun fondamento in fatto. Così come infondata si sarebbe dimostrata la tesi dell'effetto
sinergico anche a basse dosi tra c v m, alcol ed epatiti virali b e c. Si ricorda ancora, infatti, che in presenza
di tali fattori di rischio, che da soli possono offrire una spiegazione causale
o alla patologia o alla neoplasia (in particolare alle epatopatie, alle
cirrosi, all'epatocarcinoma), il supposto contributo del cvm non ha trovato
convincenti conferme nelle ricerche sperimentali.
Queste le
ragioni in base alle quali il tribunale ha ritenuto di non poter accogliere
l'impostazione accusatoria che contesta i reati in oggetto a 31 amministratori
e dirigenti che avevano governato e gestito il petrolchimico per trent'anni ai
più alti livelli, ognuno accusato di essere consapevole della responsabilità
del predecessore, ognuno partecipe del
medesimo disegno criminoso, tutti responsabili dei medesimi addebiti di colpa
come se la situazione all'interno dello stabilimento fosse rimasta immodificata
non solo negli ultimi trent'anni, ma fosse rimasta quella degli anni ’50-’60.
Conclude
infine il Tribunale ribadendo ancora che in questa traslazione dei piani
temporali si annida il vizio d’origine della imputazione, in un quadro del
passato riportato al presente, in una artificiosa forzatura che non consente di
individuare negli imputati condotti a giudizio i responsabili di eventi che
hanno la loro causa in un'altra epoca,
cui si accompagna la rappresentazione di un quadro accusatorio che risente
dell’enfasi della formulazione “a grappolo” delle fattispecie di reato in cui è
inserito un ingiustificato accumulo di eventi.
Avverso tale sentenza proponeva appello il P.M.,
nonché, ex art. 576 cpp, le costituite Parti Civili.
In particolare, il P.M. proponeva impugnazione e
chiedeva la riforma della sentenza relativamente alla intestazione
dell’imputazione, nonché relativamente a tutti i punti del dispositivo che
fanno riferimento al primo e al secondo capo d' imputazione e per tutte le fattispecie di reato
contestate agli imputati (fatta eccezione per quella di cui agli art. 422-449
c.p.) risultanti sia dal decreto di rinvio a giudizio, sia dalle contestazioni
ex art. 517c.p.p. di cui alle udienze dell' 8 luglio 1998 e del 13 dicembre
2000.
Il
P.M. chiede, quindi, che venga dichiarata la penale responsabilità di tutti gli imputati in ordine ai reati e per i
periodi di competenza rispettivamente loro contestati fin dall’udienza
preliminare, nonchè che i medesimi
vengano condannati alla pena della reclusione specificatamente per ognuno di
essi richiesta all'esito della requisitoria di primo grado.
Non
viene presentato appello relativamente al terzo capo d’accusa (parte C), perché
il reato è ormai prescritto, e in relazione all’ipotesi di reato di cui agli
artt. 422-429 (rectius 449) c.p., affermandosi essere ipotesi del tutto
residuale.
Sostanzialmente
e sinteticamente, i motivi che determinano l’appello per entrambi i capi d’imputazione (A e B) vengono enunciati nei
seguenti:
-
omessa lettura ed omessa considerazione di tutto il materiale probatorio
fornito da Pubblico Ministero e dalle parti civili;
-
omissione dei fatti, storici e processuali, indicati dal Pubblico Ministero e
dalle parti civili, a sostegno delle proprie rispettive richieste finali;
-
travisamento dei fatti;
-
omessa considerazione di tutti i fatti e i dati riferiti dai consulenti tecnici
del P.M. e delle parti civili;
-
travisamento ed errata interpretazione delle valutazioni di cui consulenti
tecnici del P.M. e delle parti civili.
-
incompletezza e contraddittorietà della motivazione;- omessa considerazione e
omessa applicazione di norme di legge, poste a tutela sia dei lavoratori che
dell’ambiente, norme di legge vigenti da decenni rispetto all’epoca (1974)
considerata dal Tribunale come rilevante in questo processo;
-
errata interpretazione delle norme del codice penale e delle leggi speciali
penali contestate agli imputati; errata interpretazione ed errata applicazione
delle norme processuali penali relative al rigetto di richieste istruttorie
dibattimentali sia del P.M. che delle parti civili.
Si lamenta quindi preliminarmente la NON CORRETTA
INTESTAZIONE DELLA SENTENZA e l’ERRONEA RICOSTRUZIONE DELLE ACCUSE DEL P.M.
evidenziandosi che il Tribunale ha omesso di riportare l'integrale capo
d'accusa, e in particolare, ha omesso di riportare le contestazioni formulate
ex art. 517 c.p.p. nel corso delle udienze dibattimentali dell’ 8 luglio 1998 e
del 13 dicembre 2000.
Già
per tale motivo, si chiede innanzitutto una riforma totale della sentenza di
primo grado.
Quanto al
merito, relativamente al primo capo d’imputazione, esordisce il P.M. con la
disamina delle ACCUSE DI CUI AGLI ARTT. 437-589-590 C.P., lamentando
superficiale ed erronea valutazione da parte del Tribunale, osservandosi
che in più punti della motivazione, ma
in particolare alle pagine 462 e 463, la sentenza riconosce per "
l'arco temporale fino al 1974 "che i livelli di esposizione al CVM per
autoclavisti, insaccatori ed
essiccatori erano " nettamente superiori " ai limiti della
normativa vigente, che il fenomeno di RAYNAUD e l’acroosteolisi riscontrati e
confermati anche dal Tribunale in queste categorie di operai erano dovuti al
loro lavoro, per il quale fino al 1974 " non sono state adottate le
misure cautelari idonee ".
In
conclusione, riconosciuto il nesso causale, il Tribunale -a causa
dell'eccessivo decorso del tempo- dichiarava la prescrizione per le lesioni
colpose in questione e, contrariamente a quanto ci si poteva e doveva
attendere, dichiarava insussistente il reato di cui all'articolo 437 (omissione
dolosa di misure cautelari), limitandosi a precisare "per condotte tenute
in un'epoca successiva al 1973 ".
Il
Tribunale si sarebbe dunque dimenticato del periodo precedente -che di dice
sicuramente contestato dal Pubblico Ministero- mentre altrettanto sicuramente,
stando alle sue stesse motivazioni, il Tribunale avrebbe dovuto dichiarare per
l'articolo 437 c.p. la penale responsabilità quanto meno degli imputati
per i quali lo stesso Tribunale aveva dichiarato la prescrizione del reato di
lesioni colpose (CEFIS, BARTALINI, CALVI, GRANDI, GATTI, D’ARMINIO MONFORTE e
SEBASTIANI), anche perché l'ultimo fenomeno RAYNAUD riconosciuto e ammesso dal
Tribunale ( quello di Gabriele BORTOLOZZO) era stato diagnosticato nel 1995 e,
quindi, non era prescritto (neanche come lesione) il 2 novembre 2001 (come,
peraltro, non erano prescritte le lesioni diagnosticate dopo il 1995 per Terrin
Ferruccio e per Guerrin Pietro, posizioni che il Tribunale non ha nemmeno
considerato, pur trattandosi di parti civili ancora costituite).
Ciò già imporrebbe la modifica
della sentenza di primo grado e del dispositivo "in parte qua". Ma
comunque, secondo l’appellante, relativamente all'accusa di cui all'art. 437
codice penale, nella sentenza si rinvengono ulteriori e più ampi vizi, in fatto
e in diritto, per i motivi che seguono, che hanno attinenza sia alla interpretazione
giuridica delle norme, sia alle contestazioni specifiche risultanti dal primo
capo d'imputazione, sia agli studi e alle conoscenze storiche sulla tossicità
e sulla cancerogenicità del CVM, sia alle proprietà nocive, tossiche e
cancerogene del CVM e del PVC.
Si
sostiene, in particolare, che il Tribunale ha gravemente errato nella scelta di
affidarsi totalmente ed esclusivamente alle dichiarazioni dei consulenti
tecnici degli imputati, omettendo di esaminare e di valutare tutto il materiale
probatorio acquisito, che riguarda:
- le
conoscenze storiche sulla tossicità del CVM (che si dice risalire alla fine
degli anni quaranta e non ai primi anni settanta);
- i
particolari organi colpiti dal CVM .
Si aggiunge altresì che,
altrettanto inspiegabilmente, il
Tribunale ha negato l'esistenza e comunque l'applicazione di norme a tutela
della salute dei lavoratori che sono entrate in vigore prima del 1970, norme
sicuramente vigenti quanto meno dall’epoca dei D.P.R. nr. 547/55 e nr. 303/56.
Quanto all’INTERPRETAZIONE
GIURIDICA DELL’ART. 437 CP, per l’appellante fulcro e punto centrale di
riferimento relativamente al primo capo d’imputazione, considerato come
la fattispecie normativa alla quale vanno riferite e conseguono le singole
imputazioni, premesso che il Tribunale avrebbe dedicato a tale norma poche,
carenti, contraddittorie e generiche osservazioni liquidando come insussistente
il fatto ascritto agli imputati, si precisa che nel presente procedimento tutte
le condotte omissive dolose ascritte agli imputati ai sensi dell’art. 437 c.p.
sono riferite, costituendo l’oggetto dell’imputazione penale, alle singole e
specifiche violazioni delle disposizioni speciali in materia antinfortunistica
e di igiene del lavoro e alla violazione dell’art. 2087 c.c., norma di
chiusura: sono riferite cioè a tutte le disposizioni normative espressamente
previste nello stesso capo d’imputazione.
E rispetto alle condotte
individuate sarebbero stati esattamente individuati e provati i fatti specifici
ascritti agli imputati, affermandosi che questi fatti hanno costituito
violazione dei doveri di sicurezza in materia di lavoro; commessi
consapevolmente, sono fatti la cui volontarietà ha concretizzato il reato
dell’art. 437 1° comma c.p. determinando, nella verificazione dei
molteplici eventi costituenti malattie e il disastro colposo, l’aggravamento
della richiesta della pena come previsto dal 2° comma dello stesso articolo.
Si sostiene preliminarmente in
ordine alla natura oggettiva e soggettiva di tale reato, che la motivazione dell’impugnata
sentenza dimostra un’evidente incongruenza che inficia già dall’inizio l’intero
impianto logico su cui è costruita. Ed infatti si fa osservare che mentre
inizialmente essa nega la configurazione del reato dal punto di vista
oggettivo, soffermandosi sulla natura e sulla nozione dei concetti di
“impianti”, “apparecchi” “segnali”, sulla locuzione “destinati a”,
sull’interpretazione del termine “collocati”, successivamente sostiene, in
contraddizione con quanto poco prima affermato, che non vi è stata alcuna
consapevole volontà da parte degli imputati di omettere quelle stesse condotte
che tuttavia aveva negato essere esistenti sul piano oggettivo (“di astenersi
dal collocare impianti ed apparecchi diretti a neutralizzare la situazione di
rischio, precisamente riconosciuta come tale dai medesimi”).
Circa l’ASSERITA INSUSSISTENZA
DEL REATO EX ART. 437 C.P. SUL PIANO OGGETTIVO, ci si lamenta che il Tribunale
abbia fornito a più riprese una interpretazione capziosamente rigorosissima -
quanto assolutamente priva di seguito sia in dottrina che in giurisprudenza -
della previsione normativa e della sua applicabilità in concreto.
Interpretazione che, se si dovesse seguire la tesi del Collegio giudicante,
verrebbe a vanificare l’applicabilità della fattispecie astratta ogni qual
volta un Giudice si dovesse trovare di fronte all’imputazione per il reato di
cui all’art. 437 c.p.. Infatti esordisce il Collegio con l’affermazione “…la
previsione normativa di cui all’art. 437 c.p.……è caratterizzata sotto il profilo
oggettivo dalla sussistenza di violazioni del dovere di sicurezza aventi
particolare serietà” (pag. 459).
E facendo tesoro di
quest’ultima gratuita asserzione, la sentenza nega la sussistenza del reato
sotto l’aspetto oggettivo sostenendo con puntiglioso vigore che le condotte
omissive attribuite agli imputati sarebbero estranee alle nozioni espresse
dalla norma penale in questione. Si osserva invece da parte
dell’appellante che l’art. 437 c.p.
trova il suo primo, insopprimibile e fondamentale punto di riferimento
negli articoli 32 1° comma e 41 della Costituzione che sanciscono il diritto
della salute dell’individuo anchge nelle nelle sue formazioni collettive.
Dunque è dalla Carta costituzionale che
derivano, concretizzandone i principi fondamentali, le disposizioni della
normativa speciale che in questo processo sono
state enucleate e circoscritte,
quanto al primo capo d’imputazione, nei D.P.R. 547/55, 303/56, nonché nell’art. 2087 c.c., oltre
che nelle norme derivanti dai
contratti lavoro.
Tali norme speciali, che il
Tribunale avrebbe decisamente ignorato, contengono tutte secondo l’appellante
che così vuole risalire alla ratio dell’art. 437 cp, una disposizione di
carattere generale, dalla quale non si può prescindere, che costituisce il
“cappello” al rispettivo testo legislativo.Si tratta dell’art. 4 del D.P.R.
547/55 e dell’art. 4 del D.P.R. 303/56, norme che sono l’una lo specchio
dell’altra: esse contengono il principio imprescindibile che impone l’obbligo
per il datore di lavoro di attuare ogni misura diretta ad evitare che la
sicurezza e la salute del prestatore di lavoro possano essere poste in pericolo
e/o danneggiate. E’ il bene dell’integrità dei lavoratori l’oggetto centrale
della tutela posta dall’art. 437 c.p., che interviene con al sanzione ogni
qualvolta vi sia una volontaria violazione degli obblighi imposti a tali fini
dalle norme speciali.
La norma di cui all’art. 437
c.p. è dunque diretta ad
anticipare – reprimendo la
condotta omissiva (o commissiva) – la soglia di tutela rispetto all’effettiva lesione del bene protetto,
imponendo che vengano adottate tutte le misure cautelari per evitare
ingiustificati innalzamenti del rischio nell’esercizio di qualunque attività
economica.
Il Tribunale invece, ne ha
inopinatamente, ingiustificatamente, illegittimamente e arbitrariamente voluto
restringere l’operatività, procedendo, sulla base di una elencazione fondata
sul significato lessicale dei vocaboli usati dalla norma penale, ad escludere
dal novero della previsione normativa dell’art. 437 c.p., e quindi dalla
possibilità di attribuzione del reato agli imputati sotto il profilo oggettivo:
a)tutti quegli strumenti o
dispositivi (non collocati per effetto delle condotte omissive addebitate
dall’accusa) che sotto il profilo oggettivo ritiene non rientranti nel concetto
di impianti (“caratterizzati dalla stabilità”) o nel concetto di apparecchi
(“caratterizzati dalla complessità tecnica”)(pag. 460);
b)tutte quelle condotte
omissive contestate che ritiene o generiche per mancata individuazione
dell’oggetto su cui cadono (meglio, non cadono), o non correlabili alla nozione
di collocazione di apparecchi antinfortunistici (pag. 460-461);
c)tutte quelle condotte
omissive contestate che ritiene attinenti a “modalità operative” e non ad attività
di natura preventiva ed antinfortunistica (pag. 461).
In realtà, secondo l’appellante, la stessa dottrina
più accreditata in materia e la costante giurisprudenza sostengono unanimemente
il principio di carattere generale secondo cui l’interprete non è autorizzato,
sia dal dato testuale della norma sia dalla ratio complessiva, ad introdurre
elementi restrittivi tali da costituire insidiosi svuotamenti della norma.
Richiedendosi solo, secondo citati pronunciati della Suprema Corte, “che il
comportamento dell’agente si concreti nella omissione, rimozione o
danneggiamento di apparecchiature che risultino necessarie per la prevenzione
di infortuni in relazione ad una collettività lavorativa la cui entità pone
essa stessa le condizioni della diffusibilità del pericolo” (Cass. sez. I
2.3.1983).
Quanto dunque al primo assunto (a), il Tribunale, per
negare l’attribuibilità delle condotte specificamente contestate agli imputati,
concentra l’attenzione sulla nozione “destinati a”, senza avvedersi che proprio
quelle condotte che sono state contestate in questo giudizio hanno tutte un
comune denominatore, costituito dall’essere state dirette a vanificare la
sicurezza dei prestatori di lavoro nell’esercizio dell’attività in termini
prevenzionistici e antinfortunistici. “Destinati a” dice l’art. 437 c.p., e
dunque deve trattarsi di un qualunque congegno di qualsiasi rilievo a funzione
prevenzionistica. Dunque anche i mezzi di protezione personale che
costituiscono fondamentale strumento per il corretto esercizio di una doverosa
attività di cautela e di prevenzione ai fini della sicrezza sul luogo di
lavoro, cautela che nello stabilimento Petrolchimico non sarebbe stata
adottata, per come riconosciuto dallo stesso Tribunale almeno fino al 1974.
Quanto al secondo assunto (b), gli addebiti liquidati
dal Collegio come “generici” o “non correlabili” (le condotte omissive relative
al blocco degli impianti, al risanamento dei medesimi, alla manutenzione degli
elementi degli impianti più soggetti a deterioramento, alle misure necessarie a
tutelare la salute dei lavoratori, all’emissione dei provvedimenti conseguenti
alla segnalazione dell’Istituto di Medicina del Lavoro, alla manutenzione in
ordine alla sostituzione degli organi di tenuta) non solo trovano
nell’istruttoria dibattimentale svolta la loro concretezza in situazioni di
luogo e di tempo, ma è la loro stessa individuazione nell’imputazione a trovare
corrispondenza nella fattispecie astratta descritta dalle norme speciali. Gli
addebiti mossi sarebbero infatti immediatamente riconducibili alle disposizioni
che nel capo d’imputazione identificano la condotta tenuta (ovvero, non tenuta)
dagli imputati: in primis alle norme più sopra citate (gli articoli 4 dei due
D.P.R. in tema di sicurezza e salute) che fanno parte del corpo normativo della
legislazione speciale, costituendone i principi introduttivi che fondano le
condotte doverose; a seguire le singole disposizioni citate; in chiusura l’art.
2087 c.c.
Nello specifico, il P.M., lamenta
poi che il Tribunale nell’attribuire al CVM solo l'angiosarcoma epatico, il
fenomeno di RAYNAUD, l’acroosteolisi e pochi rari casi di epatopatia, escludendo
qualsiasi altra patologia, in maniera estremamente contraddittoria, ha chiuso
completamente gli occhi di fronte ad un dato storico e processuale
incontestabile e cioè che il CVM sia, innanzi tutto, un epatotossico generale
ed ha di fatto negato l'esistenza di studi e di pronunciamenti anche di
organismi internazionali sulla natura tossica del CVM e del PVC per il fegato e
per i polmoni: natura tossica innanzitutto e poi anche cancerogena.
L’impostazione del Tribunale sarebbe sbagliata in fatto, in
quanto tutti i maggiori organismi e organizzazioni internazionali e nazionali
(quelli di indiscutibile serietà e prestigio) hanno confermato tale natura tossica
del CVM-PVC, ed hanno ritenuto pure la cancerogenicità del CVM. E persino gli organismi d’origine industriale,
statunitense ed europea, non hanno avuto mai dubbi sulla tossicità del CVM e
poi sulla sua cancerogenicità tanto da descriverlo come un cancerogeno
totipotente, fin dal 1974.
La natura tossica del CVM-PVC risulterebbe d’altra parte
pure da specifiche schede cosiddette di sicurezza di origine aziendale, che
costituiscono una sorta di confessione extra-giudiziale, e consapevolezza sulla
tossicità da parte degli imputati emergerebbe altresì dai loro acquisiti interrogatori in sede di indagine
preliminare, e dalle indicazioni sul punto dello stesso sanitario Montedison di
Porto Marghera, dottor Salvatore
Giudice, che in un documento agli atti
del 1971 espressamente parlava delle “tecnopatie” causate dal CVM e che in aula ha detto tranquillamente che,
giunto a Porto Marghera, nel 1969, sapeva già che il CVM era un epatotossico.
Procede poi il P.M., con citazione
di specifici brani della sentenza e relative proprie osservazioni, ad analisi
della situazione degli impianti CVM-PVC di Porto Marghera che ritiene vetusti,
obsoleti e inadeguati alle sostanze tossiche e cancerogene trattate, e
sostenendo che la sentenza assolutoria del Tribunale deve essere radicalmente
riformata per i seguenti principali motivi:
- omessa valutazione di fatti e
dati offerti all’esame del Tribunale, così come emergenti dalla documentazione
acquisita presso Enichem e Montedison;
- omessa valutazione degli stessi
dati, così come esposti e provati dalla disamina dei consulenti del P.M. e
delle parti civili;
- incomprensibile e comunque
immotivato appiattimento sulle posizioni dei consulenti tecnici di Enichem e
Montedison, dei quali sono riportati pari pari in sentenza interi brani tratti
dalle loro relazione tecniche, senza alcuna considerazione, né alcuna critica
(nemmeno negativa) di quanto sostenuto e provato in senso contrario dal P.M.,
dalle parti civili e dai loro consulenti;
- deformazione e travisamento
delle dichiarazioni dei testimoni assunti in dibattimento;
utilizzazione di dati di fatto
completamente sbagliati, ma tratti pari pari dalle memorie della difesa.
Lamenta il P.M. che l’assunto indimostrato da cui parte (e a
cui, poi, arriva inevitabilmente) il Tribunale è quello relativo al fatto che
MONTEDISON, quando nel 1974 sarebbe divenuta consapevole del pericolo
cancerogeno costituito dal CVM, avrebbe fatto immediatamente di tutto per
garantire la sicurezza degli operai. Una tale asserzione del Tribunale è stata
fatta in relazione sia all'accusa di cui all'art. 437 c.p., sia a quella di
disastro innominato colposo, sia a quella di lesioni e morti colpose. E però
una tale asserzione sarebbe profondamente errata per tutta una serie di
considerazioni, soprattutto di fatto.
Primo e gravissimo errore del Tribunale sarebbe stato quello
di “cancellare” dal suo esame e dalle sue valutazioni il fattore “tossicità” e
trattare solo quello relativo alla cancerogenicità.
Infatti, la tossicità del CVM è emersa fin dagli anni
cinquanta e da quell’epoca gli impianti dovevano adeguarsi alla normativa e
tutelare la salute dei lavoratori. A ciò va aggiunto il fatto che anche
il rischio cancerogeno è emerso durante gli anni sessanta, comunque ben prima
del 1974 e quantomeno dal 1969 con gli studi del prof. Viola.
L’assoluzione dalle
contravvenzioni relative alla materia, pertanto, non solo è ingiusta ma è
immotivata, tenuto conto della loro contestata permanenza alla data della
contestazione suppletiva e del pacifico mantenimento degli impianti di
monitoraggio nelle condizioni e con le stesse modalità di funzionamento
documentate sino al 1995 dalla documentazione esaminata dal C.T. prof.
Nardelli.
Procede poi il P.M., con la
consueta tecnica di citazione di specifici brani della sentenza e relative
proprie osservazioni, ad analisi delle
singole condotte omissive contestate agli imputati, erroneamente, si
sostiene, non ritenute dal Tribunale.
Si precisa in particolare
l’indicazione e l’illustrazione dei fatti che concretamente si contestano agli
imputati, ognuno per il periodo di rispettiva competenza, sostenendosi che:
1.VENIVA
OMESSO QUALSIASI INTERVENTO DI BLOCCO (definitivo o anche solo temporaneo)
DEGLI IMPIANTI, in particolare di
quelli più obsoleti ed irrecuperabili, ad esempio il CV6, come evidenziato e
richiesto dalle piattaforme e dai documenti sindacali (del 1975 e del 1977),
nonché dalla mozione n. 4 presentata al Consiglio regionale Veneto il 4 agosto
del 1975, mozione cui il Presidente della Montedison Eugenio CEFIS rispondeva
in data 19 agosto 1975.
2.
VENIVA OMESSO DI PREDISPORRE E COLLOCARE (o far collocare) SISTEMI E APPARECCHI
DI SICUREZZA DESTINATI ED IDONEI A PREVENIRE LA INSORGENZA NEI DIPENDENTI DELLO
STABILIMENTO PETROLCHIMICO DELLA MONTEDISON E DELLA MONTEFIBRE DI PORTO
MARGHERA, NONCHE’ NEI DIPENDENTI DELLE VARIE COOPERATIVE D’APPALTO, DI TUMORI E
MALATTIE (ANCHE GRAVISSIME), a causa del contatto con il CVM-PVC (e relativi
componenti/additivi di polimerizzazione e lavorazione).
3.
VENIVA OMESSO IL SEGNALATO RICHIESTO “INTERVENTO GLOBALE DI RISANAMENTO DEGLI
IMPIANTI DA UN LATO E MISURE CHE GARANTISCANO PER IL FUTURO IL MONITORAGGIO
CONTINUO DELL’AMBIENTE E DEGLI OPERAI”(relazione FULC e Università di Padova
del 12.3.1977)
4.
ANCORA PIU’ IN PARTICOLARE, LA COLPA (progressiva nel tempo) E’ CONSISTITA IN
IMPRUDENZA, NEGLIGENZA, IMPERIZIA ED ESPRESSA VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 2087 C.C.
– ARTT 236 CO.1 E 4, 244 LETT. A, 246, 354 CO. 1 E 2, 374, 375, 377, 383, 387,
389, 391 D.P.R. 27 APRILE 1955 N. 547 – ARTT. 3, 4, 17, 19, 20,21, 25, 58, 59
DEL D.P.R. 19 MARZO 1956 N. 303, PER NON AVER – PUR IN PRESENZA DELLE CONOSCENZE
MEDICHE E SCIENTIFICHE DI CUI SOPRA – ADOTTATO NELL’ESERCIZIO DELL’IMPRESA
TUTTE E IMMEDIATAMENTE LE MISURE NECESSARIE PER LA TUTELA DELLA SALUTE DEI
LAVORATORI.
5.
PER AVER INSERITO (o fatto inserire) NEI PROGRAMMI E NEI BUDGETS ANNUALI (o
poliennali) DI INVESTIMENTO E DI MANUTENZIONE CAPITOLI DI SPESA RELATIVI, IN
MANIERA SPECIFICA, AGLI IMPIANTI DEL CVM-PVC, DEL TUTTO INSUFFICIENTI RISPETTO
ALLA NECESSITA’ DI ELIMINARE TOTALMENTE ED IMMEDIATAMENTE LE FUGHE DI GAS CVM,
DI 1,2 DICLOROETANO E LE LORO IMPUREZZE DI REAZIONE NELL’AMBIENTE DI LAVORO
(reparti) E NELL’AMBIENTE ESTERNO (a partire, in particolare, dal programma di
investimenti 1973-75, datato novembre 1973, acquisito c/o la Prefettura di
Venezia).
6.
PER NON AVER CURATO CHE I LAVORATORI USASSERO TUTTI I MEZZI NECESSARI DI
PROTEZIONE INDIVIDUALE (in particolare quelli addetti alla pulizia delle
autoclavi, dei serbatoi di CVM, slurry, cicloesanone, delle colonne di
strippaggio, degli essicatori e filtri, dei gasometri del CVM di recupero,
nonché all’essiccamento e all’insacco) E GLI APPARECCHI RESPIRATORI IDONEI AD
EVITARE L’ASPIRAZIONE DEI GAS.
7.
PER NON AVER PREDISPOSTO MISURE DI SICUREZZA PER TUTTE LE FASI DEL CICLO
PRODUTTIVO (comprese quelle di essicamento, stoccaggio, immagazzinamento,
trasporto, carico, insaccamento, ecc.) E PER TUTTI GLI AMBIENTI DI LAVORO,
COMPRESO IL LABORATORIO.
8.
PER NON AVER SEPARATO LE LAVORAZIONI INSALUBRI, PONENDO IN PARTICOLARE
ALL’ESTERNO DEI LOCALI LE PARTI DEGLI IMPIANTI POTENZIALMENTE SOGGETTE A
PERDITE ANCHE STRAORDINARIE DEI GAS.
9.
PER NON AVER DISPOSTO (o almeno richiesto) LO SPOSTAMENTO DAGLI AMBIENTI A
RISCHIO CVM DEI LAVORATORI DELLA MONTEDISON E DELLA MONTEFIBRE, il cui
spostamento era stato indicato come inevitabile nella relazione del marzo 1977
dell’Istituto di Medicina del Lavoro dell’Università di Padova.
10.
PER NON AVER REAGITO IN ALCUNA MANIERA O COMUNQUE IN MANIERA INSUFFICIENTE,
ALLE SEGNALAZIONI CONTENUTE IN DETTA RELAZIONE DEL MARZO 1977, in cui si
parlava di “situazione sanitaria complessiva grave e tale da richiedere un
intervento globale di risanamento degli impianti da un lato e misure che
garantiscano per il futuro il monitoraggio continuo dell’ambiente e degli
operai”.
11.
PER AVER CREATO, ORGANIZZATO E MANTENUTO UN’INFERMERIA, UNA STRUTTURA SANITARIA
E UN SERVIZIO MEDICO-SANITARIO ALL’INTERNO DELLO STABILIMENTO PETROLCHIMICO
DELLA MONTEDISON E DELLA MONTEFIBRE DI PORTO MARGHERA DEL TUTTO INSUFFICIENTI
RISPETTO ALLE NECESSITA’ DI PREVENZIONE E DI CONTROLLO DELLA SITUAZIONE
SANITARIA GENERALE E PARTICOLARE DELLE MIGLIAIA DI DIPENDENTI DELL’INTERO
STABILIMENTO PETROLCHIMICO e, in particolare, delle varie centinaia di
dipendenti addetti alla lavorazione e trattazione in qualsiasi maniera del
CVM-PVC, nonché dei dipendenti delle società cooperative che lavoravano in
appalto all’interno dello stabilimento, entrando in contatto con il CVM-PVC.
12.
PER NON AVER FORNITO INFORMAZIONI DETTAGLIATE E TEMPESTIVE AI PROPRI DIPENDENTI
DI PORTO MARGHERA E AI DIPENDENTI DELLE DITTE CHE LAVORAVANO IN APPALTO IN
ORDINE ALLA NOCIVITA’ E PERICOLOSITA’ DEL CVM-PVC (fin dal 1970) E DEL
DICLOROETANO (fin dal 1977), ALLA REALTA’ IMPIANTISTICA E ALLE QUANTITA’DI
EMISSIONE IN ARIA (sia all’interno che all’esterno dei singoli reparti), SE NON
A SEGUITO DI PRESSANTI RICHIESTE SINDACALI (reiterate in particolare fino al
1977 e al 1980) generate dalle conoscenze acquisite “aliunde” dai lavoratori e
dai loro rappresentanti di fabbrica e sindacali.
13.
PER NON AVER MUNITO DI CAPPE DI ASPIRAZIONE E DI SISTEMI DI CAPTAZIONE DEGLI
INQUINANTI IDONEI I LUOGHI IN CUI VENIVANO EFFETTUATE OPERAZIONI CHE PER
MODALITA’ DI ESECUZIONE ESPONEVANO GLI OPERAI ADDETTI AD INALAZIONE DEI VAPORI,
DI GAS E DELLE POLVERI SUINDICATI (tutte le fasi di lavorazione del PVC, tra
cui le fasi di prelievo del lattice, pesatura e successiva analisi fisica,
pulizia dei filtri, insaccamento del polivinilcloruro.
14.
PER NON AVER REALIZZATO SUFFICIENTI INTERVENTI DI CONSERVAZIONE E MANUTENZIONE
DEGLI ELEMENTI DEGLI IMPIANTI PIU’ SOGGETTI A DETERIORAMENTO E DEI QUALI ANDAVA
GARANTITA LA PERFETTA TENUTA, ONDE EVITARE IL RISCHIO DI DISPERSIONE E FUGHE DI
GAS IN AREE DI LAVORO (quali valvole, flange, premistoppa e compressori CVM.
15.
PER NON AVER TEMPESTIVAMENTE INSTALLATO GASCROMATOGRAFI O ALTRI STRUMENTI DI
RILEVAZIONE IN CONTINUO, PREDISPOSTI ANCHE PER SEGNALARE IMMEDIATAMENTE IN
TUTTI I REPARTI LE FUGHE (ordinarie e straordinarie) DI GAS CVM (quantomeno dal
1972) E DI DICLOROETANO ( quantomeno dal 1978) NELL’ARIA DEI LUOGHI E DEI
SINGOLI POSTI DI LAVORO.
16.
PER AVER COMUNQUE INSTALLATO NEL 1975 E SUCCESSIVAMENTE CONTINUATO AD
UTILIZZARE GASCROMATOGRAFI E RETI DI RILEVAMENTO DEL TUTTO INIDONEI A GARANTIRE
LA TEMPESTIVA RILEVAZIONE DELLE FUGHE, L’ESATTA INDIVIDUAZIONE DEL PUNTO DI
FUGA, NONCHE’ LA CONCENTRAZIONE DEL CVM NEI SINGOLI POSTI DI LAVORO,
GASCROMATOGRAFI E RETI DI RILEVAMENTO PER DI PIÙ MALFUNZIONANTI E COMUNQUE IN
CONTRASTO PURE CON LE PREVISIONI DELLA NORMATIVA C.E.E. – DIRETTIVA N. 78/610 –
E CON IL D.P.R. 10 SETTEMBRE 1982 N. 962, NONCHE’ INSUFFICIENTI NUMERICAMENTE,
con particolare riferimento al fatto che presso il reparto CV24, quantomeno
fino al 1989, era necessario, ad esempio, interrompere il monitoraggio del CVM
sull’intera linea in occasione delle ispezioni delle autoclavi (sprovviste di
sistemi di monitoraggio autonomo) ad opera del personale addetto al controllo
ed alla pulizia, ad ogni ciclo e quindi dopo ogni bonifica.
Ripropone poi il P.M. l’elenco dei lavoratori del
Petrolchimico più a rischio, e cioè quelli addetti alle autoclavi, all’insacco
e all’essiccamento del PVC, colpiti da diversificate patologie. Elenchi che
durante la requisitoria erano stati proiettati sullo schermo e che, secondo
l’appellante, anche visivamente venivano a confermare questa sorta di singolare
epidemia che aveva colpito (e continua a colpire) gli operai in questione.
Ci si lamenta al riguardo che il Tribunale non ha
considerato minimamente questi elenchi nel loro insieme, che specificavano –
tra l’altro – anche i casi dei lavoratori assunti dopo il 1970. Pur avendo
dovuto riconoscere l’esistenza di tali particolari mansioni a rischio, il
Tribunale non ne avrebbe tratto – illogicamente e immotivamente – le
conseguenze, non avendo valutando la massa imponente di dati storici ed
oggettivi attestanti il pericolo corso da questi e da altri operai, pericoloso
concretizzatosi con numerosi casi di malattia e di morte.
A sostegno di tale motivo l’appellante richiama
l’argomento relativo alle mansioni degli autoclavisti e alle asserite modifiche
portate alle autoclavi che sarebbe uno dei più emblematici e rappresentativi
dell’intera sentenza impugnata in tema di mistificazione della realtà
processuale. Sostiene infatti il P.M. che in questa parte della motivazione,
più che in ogni altra, si rinviene una sbalorditiva concentrazione di errori,
di contraddizioni in punto di fatto, di omissioni evidenti, di vere e proprie
distorsioni ed alterazioni della realtà processuale emersa nel corso del
dibattimento di primo grado. Al riguardo si evidenzia che in questa, come nelle
altre parti della sentenza relative alle modifiche e agli interventi eseguiti
sugli impianti dello stabilimento Petrolchimico, la motivazione accoglie in
toto, considerandole come valido ed unico elemento di prova, le risultanze
documentali provenienti dall’azienda. In particolare le già note “commesse”. Si
ignorerebbero invece le prove documentali e testimoniali fornite dall’accusa,
distorcendone altre per renderle favorevoli alla tesi sostenuta.
Secondo il P.M., così facendo, la sentenza si
concentra sui dati forniti dalle “commesse” discusse dai CC.TT delle aziende,
elevandoli ad elementi certi di una asserita ma non dimostrata modifica delle
procedure e delle apparecchiature. E però, nel far questo, da un lato la
sentenza cade in continua contraddizione persino con se stessa , dall’altro
costruisce l’intero impianto logico su di un errore di fondo insuperabile:
errore di fondo che consiste nel ritenere eseguiti gli interventi su impianti e
procedure solo perché progettati dalle singole commesse.
Ma gli interventi o non sono mai stati realizzati o,
anche se avviati, sono stati successivamente interrotti e abbandonati per
l’inefficacia delle strumentazioni acquistate a seguito delle commesse.
Commesse, dunque, che, elevate ad unico elemento probatorio dal Giudice di
primo grado, dimostrano in pieno la totale fallacia e inaffidabilità.
Si citano dunque nell’atto di appello i passi della
sentenza che trattano l’argomento con evidenziazione degli asseriti errori e
contraddizioni e indicazione delle fonti probatorie che deporrebbero il
contrario, rimarcando come il Tribunale omette ogni citazione testimoniale
quando si tratta di deposizioni che rilevano l’inefficienza degli impianti;
quando sceglie un teste estrapola solo le dichiarazioni concordanti con la tesi
accolta dell’efficienza degli impianti.
Dunque secondo il P.M., i discordanti riferimenti
testimoniali citati, le omissioni evidenti e le contraddizioni contenute nella
stessa motivazione dimostrano ancora una volta l’erroneità della sentenza
impugnata, che deve essere quindi radicalmente riformata.
Per analoghi motivi ritiene il P.M. che la sentenza di
primo grado debba essere totalmente riformata anche in relazione alle posizioni
riguardanti tutti i lavoratori addetti all’insacco.
Al riguardo ripercorre le quattro principali contestazioni
d’accusa mosse agli imputati che fanno riferimento alla categoria degli operai
addetti all’insacco.
1. Con particolare riferimento
agli insaccatori soci delle cooperative in appalto, osserva l’appellante come
il Tribunale, dopo aver escluso la sussistenza di una relazione causale (o
concausale) tra le patologie respiratorie che hanno colpito
tale categoria di lavoratori e l’ esposizione dei lavoratori alla polvere di PVC, riconosce comunque che vi è stato, da parte di Montedison,
l’omissione del controllo dell’uso della maschera antipolvere nei confronti dei
soci - lavoratori delle cooperative. In tal modo il Tribunale, fra le condotte contestate nel capo di
imputazione, ritiene fondata tale specifica omissione che trova espresso riferimento normativo nell’obbligo del datore di lavoro “di disporre ed esigere che i lavoratori
usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione …”, obbligo previsto dall’ art. 4 lett. c del DPR 27 aprile 1955
n. 547 e art 4 DPR 303/56 che va messo in relazione, per quanto concerne il
lavoro di insacco che espone il lavoratore al contatto con le polveri, con
l’art. 387 del medesimo DPR 547 che fa obbligo “l’uso di maschere respiratorie
a lavoratori esposti a specifici rischi di inalazioni pericolose di gas,
polveri o fumi nocivi”.
E così il Tribunale, mentre:
- da un lato riconosce l’applicabilità degli obblighi di cui alla
citata normativa antinfortunistica in capo ai dirigenti di Montedison e a
tutela dei soci lavoratori delle cooperative
– in evidente applicazione degli artt.
3, 2 comma letta a) del DPR 547 e art. 3 DPR 303/56, nonché del principio della cosiddetta “ingerenza” della ditta
committente, che determina la responsabilità della ditta committente – Montedison - per eventi di malattia o morte che
colpiscono i soci delle cooperative in appalto;- e, conseguentemente, riconosce che questa categoria di lavoratori (ma non diversamente si può desumere anche per gli insaccatori
dipendenti di Montedison) era soggetta a “specifici rischi di inalazioni
pericolose” e che la polvere di PVC era a tutti gli effetti
“nociva;
si pone poi in evidente
contrasto – con conseguente vizio della sentenza sotto tale profilo – con quanto dallo stesso assunto in
altre parti della decisione laddove
ritiene la “non pericolosità” della
polvere di PVC e l’ insussistenza di situazione di alta polverosità degli
ambienti di insacco (che, se insussistente,
avrebbe esentato i lavoratori dall’obbligo dell’uso delle maschere) ed anzi assume che Montedison ed Enichem
avrebbero predisposto tutti gli accorgimenti e gli interventi
idonei ad evitarla.
Tanto, nonché l’omessa valutazione
delle ulteriori specifiche contestazioni rende viziata, secondo l’appellante,
la decisione. Ritenuta, infatti, la nocività del PVC – sia in quanto “polvere” in sé (cfr art. 21, 1 comma, DPR303/56)
sia in quanto polvere “pericolosa” (cfr il riferimento, seppur implicito,
all’art. 387 ) - non si poteva non
rilevare la palese violazione
degli altri obblighi contestati nel capo di imputazione.
2.
Palese poi, secondo l’appellante, la violazione dell’obbligo
di “rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui erano esposti…” (cfr
art. 4 lett b DPR 547/55e art. 4 e 5
DPR 303/56), violazione contestata all’ultima riga di pag. 6 del capo di
imputazione (“per non aver fornito informazioni dettagliate … ai dipendenti
delle ditte..”).
Al riguardo sostiene l’appellante
che intanto sicuramente esistente, in forza delle evidenze processuali fondate
sulle relazioni dei consulenti tecnici che si richiamano in ordine al punto
specifico, era il rischio, quantomeno della nocività del PVC per l’apparato
respiratorio dei lavoratori addetti all’insacco, e sicura la sua conoscenza in
capo ai dirigenti Montedison che emergerebbe dai seguenti elementi probatori:
- dalla doverosa conoscenza della normativa vigente (il DPR
303/56, art 21 , impone, ad esempio, al
datore di lavoro di evitare il contatto
e/o di ridurre la dispersione delle “poveri in genere” mentre l’articolo 33 e la tabella richiamata
prevede l’obbligo di effettuare visite trimestrali nei confronti di lavoratori
addetti all’impiego del cloro e dei suoi composti);
- dalla conoscenza certa sin dagli
anni cinquanta e sessanta che all’interno del polimero, in particolare nel PVC
in sospensione, erano inglobate
molecole di CVM, come è confermato anche indirettamente dal fatto che l’impresa
avrebbe negli anni ‘76 e ‘77, a suo dire, introdotto il sistema di strippaggio
proprio per prelevare queste molecole di CVM;
- dai rilievi svolti dai singoli
operatori che accertavano, contrariamente alle rilevazioni dell’impresa, che la presenza di CVM nei
locali addetti all’insacco era
particolarmente consistente;
- dalla scheda della Montedipe
numero 336 del 05/07/85 in cui il PVC viene definito “tossico acuto per
inalazione” e che - si dice- “induce alterazione al sistema respiratorio”;
- dalla consegna ai lavoratori
(solo quelli dipendenti) del dentifricio NOVO SATURNO da usare prima dei pasti,
per evitare l’ingestione delle polveri e dei vapori depositati nel cavo orale
da parte dei lavoratori del CVM-PVC;
dal fatto che nel 1967 vennero
pubblicati, come detto, sulla Tribuna del CEBEDEAU (Liegi) i risultati delle
indagini sui granuli del PVC svolte da Montedison.
Di converso la contestata violazione
dell’obbligo di informazione sarebbe invece dimostrata, dai seguenti elementi:
- dai contratti di appalto con le varie Cooperative, dove non vi è
cenno alcuno al rischio specifico per i lavoratori derivante dalla polvere di
PVC e dal CVM nella stessa contenuto come monomero residuo;
- dalla lettera del maggio del 1984 con la quale il dott.
Clini chiedeva a Montedison,
Montepolimeri, a Riveda e alla Cooperativa Facchini Tessera, i motivi per i
quali non sono stati comunicati al suo servizio i nominativi dei lavoratori
delle cooperative per la tutela sanitaria;
-
dalle testimonianza dei testi
Barina, insaccatore dal ‘76 all’80, che ricorda che ai corsi per la prevenzione non vi erano i lavoratori delle
cooperative; Battaggia che esclude nel modo assoluto di essere stato informato
della pericolosità del PVC e del CVM in
esso contenuto come monomero residuo; Pezzato, che ha lavorato dall’80 all’86,
ma non ricorda che gli sia stata mai comunicata tale pericolosità; De Catto che
non è mai stato avvertito da nessuno, ma lo è venuto a sapere indirettamente dai dipendenti; Giacomello,
che dichiara pure lui saperlo soltanto dagli anni 80; ed anche il teste della
difesa Gasparini, che è il principale teste, dice che i capi delle cooperative
erano messi a conoscenza della pericolosità del CVM, ma non del PVC.
Connesso al predetto obbligo
sarebbe poi quello del committente di accertarsi che l’appaltatore a cui affida
l’opera sia soggetto non soltanto munito di titoli di idoneità previsti dalla
legge, ma anche della capacità tecnica e professionale in relazione al tipo di
lavoro che gli è stato affidato. E anche in riferimento a questo obbligo vi è, secondo l’appellante, il fondato
dubbio che, nel caso in esame, vi sia stata una violazione di legge.
3. Risulta, ancora, provata
la violazione dell’obbligo del datore
di lavoro e committente dei lavori in
appalto di “adottare intereventi volti ad impedire o a ridurre lo sviluppo o la
diffusione della polvere” (art. 21
comma 1 DPR 303/56 ) e di “ove non sia
possibile sostituire il materiale di lavorazione polveroso, di adottare
procedimenti lavorativi in apparecchi chiusi muniti di sistemi di aspirazione e
di raccolta delle polveri…” “…vicino al
luogo di lavoro …”, ..”comunque impedendo alle polveri di rientrare
nell’ambiente di lavoro “ (art 21 comma 3,4,5 e 7 DPR), norme richiamate nel
capo d’imputazione con specifica contestazione.
Al riguardo, ricordate le tecniche
di produzione del PVC (con polimerizzazione del CVM in “emulsione”, adottata
presso l’impianto CV6, e con polimerizzazione in “sospensione” adottata presso
gli impianti CV14, CV16, CV24/CV25), contesta il P.M. l’assunto del Tribunale
secondo il quale la polverosità dell’ambiente conseguente alla polimerizzazione
in sospensione sarebbe migliorata dopo i primi anni settanta, affermandosi
invece che tale miglioramento e adeguamento impiantistico sarebbe sconfessato
da ben 7 testi, e perché gli interventi tecnici realizzati sarebbero comunque o
tardivi o inutili, onde la valutazione del Tribunale sarebbe oltre che erronea
frutto di travisamento dei fatti emergenti dalle dichiarazioni testimoniali, e
ricorda l’appellante le testimonianze non considerate dal Tribunale e quelle
asseritamente travisate.
E così fondata sarebbe l’accusa di “aver omesso le misure
quali …. il monitoraggio continuo
dell’ambiente e degli operai…” e “di
non aver tempestivamente installati gascromatografi o altri strumenti di
rilevazione in continuo” negli ambienti di insacco.
Sarebbe infatti dato indiscutibile
che gli ambienti dove veniva svolto l’insacco
non sono mai stati ricompresi
tra le “zone sorvegliate”, fatto confermato da tutti i testi escussi, mentre
sul punto nulla dice il tribunale che anzi lo ritiene irrilevante perché la presenza di CVM residuo nel PVC in emulsione
sarebbe stato inferiore od eguale ad 1 PPM. Ma le cose, secondo il P.M., non
starebbero così in quanto nell’apice
del reparto CV6 , dopo il degasaggio , rimane ancora presente una notevole quantità di CVM residuo,
CVM che si libera in ambiente dagli
sfiati dei serbatoi di stoccaggio dell’apice e dalle successive
apparecchiature. E sottolinea l’appellante come il Tribunale dimentichi che i
bollettini di analisi – a campione - che avvalorano tale dato sono del
periodo 1987 - 1989 e quindi assai recenti ( nulla ci dicono della presenza del CVM in
epoca anteriore) e che il
teste Perazzolo ha riferito che il quantitativo di CVM che si
riscontrava con gli apparecchi di
rilevazione presso il magazzino PVC o
CV7 era “di base” pari a non meno di 10 PPM. Ragione questa che doveva
imporre il monitoraggio continuo in tali ambienti.
4) E’ Fondata, ancora, per il P.M., la contestazione “di aver creato organizzato
e mantenuto all’interno dello stabilimento petrolchimico di Porto Marghera, un
servizio sanitario del tutto insufficiente rispetto alle necessità di
prevenzione e di controllo della situazione generale e in particolare dei
dipendenti delle cooperative che entravano in contatto con CVM e PVC”.
Lamenta l’appellante che sul punto
il Tribunale nulla assume, nonostante fosse pacifico che i soci delle cooperative, dalle misure
sanitarie praticate agli altri lavoratori, periodicità dei controlli
normativamente previsti per gli addetti a produzioni nocive e ai lavoratori del
ciclo del cloro (cfr art. 33 DPR 303/56), sono sempre stati i grandi esclusi,
fatto comprovato in atti testimonialmente.
Analoghe censure muove poi l’appellante in merito ai
lavoratori addetti alla manutenzione, in ordine ai quali nulla avrebbe riferito
il Giudicante di primo grado.
Secondo il P.M. i dati certi che
si traggono dalle dichiarazioni rese in sede dibattimentale e disattesi dal
Giudicante di primo grado, sono due.
Innanzitutto,
i testi sono concordi nell’affermare che mentre la manutenzione straordinaria,
eseguita episodicamente a cura delle officine centrali, veniva normalmente
svolta previa fermata degli impianti, la manutenzione ordinaria, eseguita anche
quotidianamente e posta in essere dalle officine di zona e dalle squadre di
reparto, veniva comunque fatta con gli impianti in esercizio e ciò con
conseguente esposizione dei lavoratori addetti alle sostanze ivi lavorate.
In
secondo luogo, i lavoratori sono concordi nel riferire che gli addetti alla
manutenzione intervenivano sempre qualora si verificassero fughe di gas nei
reparti senza, tuttavia, previa bonifica degli stessi e conseguente diretta
esposizione ai gas tossici fuoriusciti.
Sul
punto poi si ricorda ancora la mancata predisposizione ed il mancato controllo
sull’utilizzo anche da parte dei manutentori dei mezzi di prevenzione
personale, richiamando testimonianze al riguardo.
Ne
deriverebbe come inevitabile conclusione l’esposizione a CVM ed a PVC dei
lavoratori addetti alla manutenzione. Secondo il P.M. infatti, trattandosi di
personale adibito agli interventi manutentivi all'interno di tutti i reparti,
ivi compresi anche quelli ritenuti ad alto rischio espositivo dallo stesso
Giudicante di primo grado, senza adeguati mezzi di prevenzione, senza previa
sospensione degli impianti e senza infine previa bonifica in caso di intervento
a seguito di fughe, è incontestabile l'esposizione di detti lavoratori a tutte
le sostanze nocive prodotte nei singoli reparti.
Conclusioni
che sarebbero conformi a quanto risultante dalle matrici mansione-esposizione
pubblicate dai dott. Comba e Pirastu e
altri (“La mortalità dei produttori di cloruro di vinile in Italia in Med. Lav.
1991) sulla base di dati forniti dall’azienda. E conformi altresì alle
risultanze d’origine aziendale della “Legenda dei reparti con esposizione diretta
e/o indiretta degli addetti ai cancerogeni CVM, DCE, PVC, nonché ad altri
agenti tossico nocivi presso il Petrolchimico di Porto Marghera”, egualmente
agli atti del procedimento, legenda secondo la quale i lavoratori addetti a
interventi manutentivi su impianti e macchinari nonchè negli ambienti di lavoro
relativi a tutte le lavorazioni del CVM e PVC sono soggetti
all’esposizione di tutti gli agenti
tossico nocivi presenti nei reparti frequentati. Ed altresì conformi alle
indicazioni fornite dall’azienda che, conglobando i detti lavoratori nel cd.
“Gruppo H” comprendente i laboratori di controllo, il parco serbatoi, le
manutenzioni ed il controllo cromatografi (come risultante della lettera datata
12.6.1979 a firma dott. Giudice ed inviata al dott. Bartalini, discussa
all’udienza 5.4.2000), risulta classificare i lavoratori addetti tra gli
esposti. Lamenta poi l’appellante un’altra
grave omissione addebitabile al Tribunale, al quale era stato rappresentato,
chiaramente e documentalmente, che dal 1970 in poi erano stati assunti ed erano
stati assegnati ai reparti CVM –PVC decine di nuovi operai. Per costoro,
quindi, l’esposizione al CVM-PVC iniziava dopo il 1969 e per tredici di loro
persino dopo il 1973.
Rilievo, questo, che si assume importante in
quanto:
- secondo l’accusa, la cancerogenicità del CVM
venne segnalata ufficialmente al mondo intero in occasione del Congresso
internazionale di Medicina del Lavoro di Tokyo del settembre 1969, a seguito
delle vicende del Prof. Viola;
- secondo il Tribunale, l’epoca scriminante
relativamente alla conoscenza della cancerogenicità del CVM è la fine dell’anno
1973, che coincide con la vicenda “Goodrich”.
Ciò
significa che, dal punto di vista della conoscenza sulla cancerogenicità, prendendo per buono l’assunto
del Tribunale sull’inizio dei consequenziali obblighi per l’imprenditore,
andavano in ogni caso, esaminate ed approfondite accuratamente le posizioni dei
lavoratori:
- con inizio esposizione successiva al 1969
(accettando l’impostazione del P.M.);
- con inizio esposizione successiva al 1973 (accettando l’impostazione del Tribunale).
Ma i Giudici di primo grado non
hanno fatto né una cosa né l’altra.
Per contro, nel riproporre i
relativi elenchi, sostiene il P.M. che meritavano una analisi particolareggiata
quei lavoratori colpiti da patologie per le quali lo stesso Tribunale aveva
riconosciuto un nesso causale (malattia di Raynaud ed epatopatie).
E meritava un’analisi, anche
semplice, quel gruppo di lavoratori (21) che avevano iniziato ad essere esposti
dopo il 1973, in un periodo in cui – secondo il Tribunale – ormai tutti i
precedenti gravi problemi di esposizione al CVM-PVC sarebbero stati risolti.
In particolare, si cita il caso
di Carlo Bolzonella, deceduto per epatocarcinoma, assunto nel 1981 ed andato in
cassa integrazione nel 1989 (come già ricordato): morto dopo aver lavorato per
MONTEDISON, per ENICHEM e per ENIMONT.
Ma nemmeno lui, rimarca
l’appellante, ha meritato un commento per il Tribunale, nemmeno una riga sulla
sua particolare situazione.
Anche per questi motivi,
ritiene il P.M. che la sentenza di primo grado debba essere radicalmente
riformata.
Rimarca poi ancora l’appellante
la doglianza secondo la quale il Tribunale avrebbe operato, con USO DISTORTO
DELLE DICHIARAZIONI TESTIMONIALI, una errata ricostruzione dei
fatti storici oggetto della presente vicenda processuale estrapolando, dalle
deposizioni dei numerosissimi testi assunti nel corso del dibattimento,
solamente alcune affermazioni ed alcune circostanze, mirate alla decisione di
cui al dispositivo, senza mai dare alcun conto dei criteri di selezione, scelta
e valutazione adottati.
E cita al riguardo, a titolo
esemplificativo, le testimonianze di GASPARINI Danilo, GIUDICE Salvatore,
ALONGI Vittorio, BACCHETTA Enzo che porterebbero a diversa valutazione rispetto
a quella avvalorata dal Tribunale.
Circa i reati di cui agli ARTT.
589 - 590 C.P. ed alla problematica della CASUALITA’, il P.M. appellante,
premesse alcune considerazioni che troverebbero giustificazione a seguito della
sentenza n. 30328 del 10.7/11.9..2002 emessa dalle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione sostiene che anche su questa parte, che può considerarsi il pilastro
dell’intera vicenda processuale che ci riguarda la sentenza impugnata commette
gravissimi errori di interpretazione del nesso causale: errori che riguardano
sia l’interpretazione data dai Giudici di primo grado dell’istruttoria
dibattimentale del presente processo penale, sia la stessa interpretazione
giuridica del nesso causale in relazione alle condotte ascritte agli imputati e
agli eventi di reato che ne sono conseguiti.
Osserva in particolare: che la sentenza delle SS.UU.
della Suprema Corte, dirimente un contrasto interpretativo sorto in seno alla
sezione IV dello stesso giudice di legittimità, pur riguardando un caso di
responsabilità per attività medico-chirurgica, è riferibile – come la stessa
pronuncia afferma espressamente – anche ai settori delle malattie
professionali, delle alterazioni ambientali e del danno da prodotto.
Nello specifico settore delle malattie professionali
si ritiene che essa si attagli precipuamente al caso oggetto della presente
vicenda processuale.
L’imprescindibile riferimento ad essa consente,
inoltre, di affermare la valenza della tesi sostenuta dall’accusa, in particolare
di quanto questo Ufficio ebbe ad esporre in sede di replica della propria
requisitoria all’udienza del 10 ottobre 2001 sulla questione giuridica del
nesso causale.
Nel contempo, la pronuncia citata permette di
evidenziare i gravi errori commessi dalla sentenza impugnata.
Premette al riguardo che le Sezioni Unite della Corte
di Cassazione – per usare le stesse parole della Corte - sono state chiamate a
dirimere un conflitto interpretativo che non riguarda lo statuto
condizionalistico e nomologico del rapporto di causalità, riguardando invece il
contrasto giurisprudenziale a causa del quale è stato chiesto l’intervento
delle Sezioni Unite la concreta verificabilità processuale di quello statuto,
ovvero la individuazione dei criteri di determinazione e di apprezzamento del
valore probabilistico della spiegazione causale.
E rivendica il P.M. che già in sede di replica nel
giudizio di primo grado, seguendo un ragionamento logico analogo a quello che
oggi si ritrova nella sentenza delle SS.UU., dopo aver fatto riferimento alle
varie e diversificate pronunce della giurisprudenza di legittimità in tema di
causa penalmente rilevante, si era soffermato sulla necessità di definire e
precisare meglio il concetto di grado di probabilità. Aveva fatto
riferimento a questo proposito alla sentenza 12.7.1991 della sez. IV, che
riteneva sufficiente un grado di probabilità pari al 30% per ritenere
sussistente il nesso causale tra la condotta omissiva del medico e l’evento
lesivo. Ma solo come riferimento di minima, come si potrebbe chiamarlo, e solo
per considerare che lo stesso concetto veniva ripreso da una sentenza di 10
anni dopo, il 17.9.2001, a ridosso della conclusione del primo grado di questo
processo, sentenza che era in contrasto con le tre sentenze della stessa quarta
sezione (estensore Battisti), che accoglievano un criterio più rigido di
probabilità.
Errerebbe quindi la sentenza impugnata laddove,
inspiegabilmente, addossa al Pubblico Ministero affermazioni di stretto diritto
che non ha mai espresso, attribuendogli del tutto arbitrariamente “orientamenti
che introducono nel processo ricostruttivo del nesso causale istanze di
prevenzione generale”. Ma soprattutto erra nelle conclusioni cui giunge in tema
di spiegazione del nesso causale.
Al riguardo, ricorda l’appellante che il Tribunale afferma che “il modello causale compatibile con il nostro ordinamento è quello idoneo ad includere non solo le spiegazioni nomologico-deduttive provviste di certezza (la copertura data dalla legge universale), ma anche le spiegazioni offerte dalla scienza secondo un modello statistico-induttivo che colloca l’approccio nomologico nello specifico contesto che valorizza la ricerca e l’analisi di tutti i fattori presenti e interagenti: in tale modo anche le leggi statistiche sarebbero in grado di spiegare che un evento si è verificato a patto che la frequenza consenta di inferire l’explanandum con quasi